Gabriele Tinti, poeta e scrittore italiano, grazie al suo progetto “Rovine”, torna a raccontare il valore della parola, abbinata all’arte statuaria. Dopo aver coinvolto, tra gli altri, Kevin Spacey e Malcom McDowell, il 22 giugno avrà come protagonista il regista Abel Ferrara. Tra pubblicazioni, pensieri, nuove idee, ci racconta di sé e di un nuovo modo di celebrare la poesia.

«Cerco il lirismo, non sono narrativo. Preferisco semmai il potere di ogni singola parola».

Nel recitare ogni termine non è a caso, e Gabriele Tinti, scrittore e istrionico poeta di Senigallia, diviso tra epigrafi e “frammenti”, ci fa scoprire un mondo inedito, unico nel suo genere, da lui stesso inventato. 

Il progetto è appunto “Rovine” (Ruins), una serie di reading dal vivo di fronte alla statuaria classica, nel quale è riuscito a coinvolgere alcuni dei maggiori musei mondiali (il Metropolitan Museum of Art di New York, il J. Paul Getty Museum il LACMA di Los Angeles, il British Museum di Londra, il Museo dell’Ara Pacis) con attori del calibro di Malcolm McDowell, Joe Mantegna, Marton Csokas, Robert Davi, Burt Young, Franco Nero, Alessandro Haber. Senza dimenticare Kevin Spacey, un colpo straordinario messo a segno nell’agosto nel 2019, dopo una lunga assenza dalla scena pubblica (a causa delle accuse di molestie, ndr), tornato solo per leggere una delle sue poesie, Il pugile, di fronte all’omonima statua conservata al Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo. Amicizie, interpreti, volti, collaborazioni, nate «soprattutto per amore e passione verso un’idea, un progetto artistico», eppure già scolpite in un format privo di difetti, dannatamente moderno e ambizioso.

In attesa del prossimo evento esclusivo, il 22 giugno, con protagonista il regista Abel Ferrara, in programma al Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo e di Palazzo Altemps, lo incontriamo (virtualmente) per conoscerne la storia, i riferimenti, le passioni, il suo modo di scoprire le cose, la Poesia e l’amato pugilato.

Torniamo indietro un attimo a Spacey. Riapparse in pubblico, la prima volta, per merito suo. Come riuscì a convincerlo?
A differenza di altri, la cosa nacque in maniera casuale. Lui stava vivendo un periodo molto particolare ma proprio per quello che rappresentava – un capro espiatorio, la tragedia, il dramma – mi sembrava perfetto per il progetto. Andai semplicemente sul suo sito, mandando una mail col massimo del candore. Dopo pochi giorni, sembra assurdo, mi rispose il suo manager, dicendomi che gli era piaciuta l’idea e che ci saremmo tenuti in contatto. Poco tempo dopo, tornando a New York per una lettura in un museo, riuscii ad avere un appuntamento, a Baltimora. Ci incontrammo lì, passando insieme un intero pomeriggio a parlare d’arte, boxe, e a riflettere in maniera concreta sul realizzare qualcosa. La scorsa primavera io ero pronto, gli riscrissi e riuscimmo a organizzare in coincidenza con un suo viaggio in Europa. Ancora adesso è stupefacente pensare che tra migliaia di proposte ricevute, declinate, si sia innamorato dei miei testi, a tal punto da venire a leggerli davvero e creare l’evento di cui si è parlato in tutto il mondo.

Cosa lo ha colpito secondo lei?
Credo il fatto che non c’era nessuna mira nel coinvolgerlo. Io sono un poeta, non ambisco a guadagnare, né ora, né dopo. Gli piacque molto la poesia, e l’abbinamento alla statua stessa, Pugilatore a riposo: il testo racconta un pugile che, seppur vincitore, è una vittima, sanguinante, segnata, distrutta. E Spacey incarnava quello spirito. Dopo l’ho portato ai Musei Capitolini, Piazza del Campidoglio, ci siamo fermati di fronte alla statua equestre del Marco Aurelio di bronzo, e lì disse: “in un periodo buio, mi ha aiutato leggere i suoi scritti così profondi, il suo rapporto con gli altri, i pensieri, gli aforismi”. È stata una bellissima esperienza di conversazione.

C’è un filo conduttore nell’aver scelto questi attori?
A parte Spacey, gli altri, come dire, hanno interpretato spesso ‘ragazzi cattivi’, quindi più che metterli in luce da un altro punto di vista, volevo fare leva sulla loro caratterizzazione, marcare ancora di più temi forti come il dramma, il difendersi dalla potenza della perdita, il dolore, la violenza.

Quali sono stati i suoi punti di riferimento?
Ne ho molti, dai grandi classici, Archiloco, Anacreonte, che è violentissimo, ai romantici tedeschi, i russi, Blok, Esenin, Majakovskij, senza implicazioni, poeti brutali, oscuri. In Italia, forse Foscolo, Leopardi, più i ricordi di scuola.

Ma facendo il poeta si ‘sopravvive’, o davvero bisogna inventarsi altro?
Io lavoro con i disabili, anche gravi, sono un insegnante di sostegno nelle scuole, in passato lo sono stato di Lettere. Ogni giorno, ogni mattina, sono a contatto col dolore, ci sbatto letteralmente il muso, ma in fondo noi tutti ci costruiamo nella sofferenza, accrescendo una certa conoscenza. Bisogna solo essere onesti, cercando di capire cosa puoi portare agli altri.

La poesia, come linguaggio, può fare la differenza?
Credo ci sia un grande fermento in Italia, e non solo, di poeti o presunti tali, c’è chi si raccoglie attorno ad un festival, una rivista, la scena culturale è attiva, e questo è positivo quando qualcuno cerca di metterlo in atto attraverso la volontà, il desiderio, il talento. Purtroppo le muse rispondono soltanto a chi bussa in un certo modo (sorride, ndr).

Mai pensato di creare qualcosa di più grande, in cui magari poter racchiudere tante cose?
È molto difficile, ci vuole un’attitudine diversa, fatta di energia, ricerca di denaro. Io scrivo perché è una necessità, e quando mi accorgo di aver realizzato qualcosa di valido, con un senso, allora lo sottopongo. Spacey, gli altri, lo hanno capito, ma c’è stata una coincidenza di vita e arte. E quando accade, diventa speciale.

Il 22 giugno sarà il il turno di Abel Ferrara, cosa accadrà?
Lo farò leggere brevemente davanti alla statua del Galata suicida, è una replica romana di un donario, una sorta di altare, costruita da un re di pergamo, l’attuale Turchia, per celebrare la vittoria sui barbari galati. Lo vediamo uccidersi, e così la moglie, non curandosi della gloria, proprio per non finire in mano all’avversario. Ferrara l’ho voluto per il suo essere stato “brutale” nel cinema, è una leggenda in questo senso, ha un’aura unica, quindi i testi erano perfetti per lui. Magari, il prossimo obiettivo, sarà proprio uno dei suoi attori feticcio, Willem Dafoe.

Nel frattempo usciranno delle nuove pubblicazioni.
Ne ho due, una, a settembre, per Powerhouse Books, editore indipendente di New York (fa parte della Random House, ndr), dove ci saranno le fotografie di Roger Ballen, e alcune mie poesie. Si chiama The Earth Will Come To Laugh And Feast, ovvero ‘la terra verrà a ridere e banchettare…’ Non lo trova molto attuale e profetico?… Infatti sta accadendo.

Il secondo?
Arriverà ad ottobre, edito dalla Eris Press di Londra, è ispirato proprio al progetto di Rovine, “Ruins”. Sono due raccolte di poesie, impreziosite dalle immagini delle stesse opere e alcune appendici, una sorta di summa generale del progetto.

Il cinema, vedendo le ‘sue’ muse, pare abbia fatto parte della sua formazione, o sbaglio?
La mia vita è stata molto carica, da piccolo era divisa tra casa-scuola, l’asilo dalle suore, soffrivo pure di sonnambulismo, tanto che dovevano rincorrermi alcune volte, e un’adolescenza, come dire, abbastanza selvaggia. Il cinema sì, irruppe grazie a John Huston e Città amara – Fat City, Martin Scorsese, da Fuori OrarioToro Scatenato, anche se, da bambino poi, me lo fece vedere mio padre, il film che ebbe un impatto fu Rocky. E poi chiaramente tutto Stanley Kubrick, da Arancia Meccanica in avanti.

Immagino l’emozione quando ha coinvolto Malcolm McDowell.
Nacque come progetto digitale, gli ho mandato degli audio, lui è stato davvero gentile nel farmi i complimenti riguardo ai miei scritti. Sono cose che danno coraggio, ti portano a continuare, ma in fondo la prima persona che deve crederci sei solo tu.

Sta già pensando al 2021?
Sul filo di queste registrazioni, sì, sto realizzando una serie ispirata, non a caso, alle epigrafi, le iscrizioni funerarie provenienti dal mondo romano. Sono affascinanti, mi sono rimaste in testa da quando mio padre mi portava a fare dei “tour” nei cimiteri di campagna, visitando i parenti, e quella scrittura è affascinate. Da lì ho utilizzato parole latine, sviluppandole. Mi piacerebbe creare magari un audio libro, che possa proseguire, in realtà sto anche preparando con Marton Csokas (ne Il Signore degli Anelli interpretava Celeborn, ndr) una sorta di disco, partendo dai miei testi. La musica dà un nuovo senso alla poesia.

Il pugilato sembra una grande passione. Come mai?
Rappresenta la spettacolarizzazione della sofferenza, perché in qualche modo è disciplinata, è qualcosa che trascende lo sport, e anche l’arte. I grandi capolavori possono essere dei match, ne potrei citare a decine, ne sono pazzo, a tal punto da conoscere tutto, e dall’essere andato molte volte al Madison Square Garden. Parliamo di Muhammad Ali contro Frazier, di Tyson contro Holyfield, di Wilder contro Fury, di Castillo contro Corrales: c’è epica, e qualcuno rinasce dalle proprie ceneri. I pugili sono le vere rockstar, e la boxe è una grande opera, popolare e artistica.

Finiamo in citazione. C’è un mantra a cui è affezionato?
Non ne ho bisogno. Sono ossessionato dalle parole, forse troppo, è una forma di sensibilità, l’unica che fa pensare di poterti salvare grazie a loro, è come un gioco psicologico, di ricerca, pensiero, ma oggi dovremmo provare anche a educarci al silenzio, è in egual modo una forma di immaginazione. In fondo, però, stare con se stessi è forse la cosa più complicata.