A distanza di cinque anni, Soko, attrice e cantautrice francese, torna a raccontarsi grazie al suo terzo album, “Feel Feelings”, in uscita il 10 luglio. Un viaggio pieno di magia ed emozioni, composto da 12 canzoni, da “Looking For Love” a “Quiet Storm”, capace di farcela riscoprire nuovamente in tutta la sua potenza e bellezza.

Cronaca di una conversazione illuminante, seppur su Zoom, a distanza, in diretta con Los Angeles. Lì sono le 8 del mattino, qui le 17 del pomeriggio. Dall’altra parte, ad attenderci, c’è Stéphanie Alexandra Mina Sokolinski, più semplicemente e conosciuta come Soko, una delle artiste maggiormente espressive e prodigiose. Cantautrice, polistrumentista, attrice, libera e indipendente, la stessa che, nel 2016, in Io Danzerò, seppe indossare i panni mirabolanti di Loïe Fuller, pioniera della danza contemporanea e della ‘Serpentine Dance’, emblema, tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900, di un modo di porsi all’avanguardia e sperimentale. E Soko insegue da tempo le stesse orme, l’unicità, la rivoluzione contro certi schemi, l’essere di luce, l’artista splendente, incantatrice sì, ma di quest’epoca, forse, ancora, troppo bigotta e impreparata a tanta innovazione.

Nei pochi rumori di fondo della stanza, tra il silenzio ovattato e lo sfondo bianco ottico, quasi impeccabile, va in scena allora lei, sorridente, famigliare, come quel Mickey Mouse impresso sulla felpa che indossa. L’occasione, voluta, inseguita, è raccontare la nuova creatura da musicista, dopo I Thought I Was an AlienMy Dreams Dictate My Reality, il terzo album, ‘Feel Feelings’ (uscirà ufficialmente il 10 luglio). Un viaggio, inedito, a tutti gli effetti, di sonorità e linguaggi, in cui debutta pure nel suo francese, dodici tracce, tappe, di formazione, scoperta, vere, sentite, preziose, dolorose, capaci di spaziare dall’amore, per se stessa e gli altri, all’accettazione, alle complessità della vita, la violenza domestica, gli abusi subiti in tenera età, il passato. E il futuro, che parla adesso di famiglia e maternità, grazie al figlio Indigo, che ad un certo punto della nostra intervista comparirà, reclamando l’allattamento dalla mamma. E sarà un momento bellissimo da osservare. Il disco arriva come una lettera piena di messaggi, atmosfere e condivisione, anche ‘brutale’, sfociando, però, in un arcobaleno di passioni e trasformazione in una delle canzoni – inno dell’album, Oh To Be a Rainbow, e in quel Now What, a dirci infine una grande verità, «bisogna dar voce ai propri sogni, ma anche alle nostre emozioni»

Il secondo album era dedicato ai sogni, adesso, però, quelli si sono avverati, no?
Direi che il quadro è perfetto, penso che la sensazione esatta sia espressa proprio nella canzone intitolata Now What. Perché mi sembrava davvero di essere sopravvissuta a tutti quei sogni, di essere andata ben oltre ogni cosa, e l’ho desiderato disperatamente durante la vita. Adesso vivo a Los Angeles da dodici anni, qui c’è la mia casa, la mia famiglia, ho un bambino e una compagna (Stella Leoni, ndr), e sono libera, esternamente e internamente, nel poter gioire di questa relazione. Non avrei mai pensato che fosse possibile. Dove vai, mi sono chiesta, cosa ci sarà poi…

Cosa ti sei risposta?
Dal punto di vista professionale lavorare con collaboratori incredibili è stato gratificante, qualcosa che non avrei mai creduto realizzabile, trovare persone capaci di interessarsi a me, che avessero voglia di esserci nel progetto. Questo disco è allora una sorta di rinascita, voluta con forza, rifiutando ogni sorta di distrazione, sposando il celibato durante il periodo di lavorazione, azzerando pure il mio romanticismo. Cosa mi aspetto? Solo cose belle.

È accaduto prima di essere incinta.
Sì, nell’ultima traccia (Hurt Me With Your Ego), però, mio figlio compare, è il suono del suo battito durante l’ecografia (sorride, ndr). Ho finito il disco che già si muoveva dentro di me, in quel momento si chiudeva un capitolo importante e nello stesso tempo ne accoglievo uno nuovo, in grado di cambiarmi ulteriormente. Il mio prima e il dopo. Qui volevo riconnettermi anche alla mia autostima, al presente, ciò che amo, senza dimenticare il passato, e poi subito ripartire guardando in avanti. La cosa affascinante è stato il processo creativo: nessuna demo, scrivevo e registravo in studio, mentre le canzoni venivano fuori una alla volta, in una forma naturale, imprevista.

Nell’album c’è ‘Blasphemie’, composta nella tua lingua madre. Ripensi mai da dove sei partita?
Sono cresciuta in una cittadina relativamente molto piccola nel sud della Francia, come Bordeaux, allora, sai, andare a Parigi sembrava la cosa più grande del mondo. Trasferendomi poi negli Stati Uniti, ho iniziato ulteriormente ad ascoltare e assimilare molta musica in inglese, volevo realizzare un album dal respiro internazionale. Eppure mi ritengo comunque molto francese, avrei voluto sempre provarci, ma non trovavo l’occasione giusta, d’un tratto è accaduto qualcosa. All’improvviso ho avvertito la necessità di fare il passo, e allora mi sono venute incontro le sonorità provenienti da Serge Gainsbourg o degli Air, e in un attimo ho ritrovato le mie radici, chi sono veramente, dove sono stata, raccontando alcuni eventi, come li ho vissuti, affrontati. Parlo di quando vivevo a Parigi, insieme alla mia ragazza di allora, Sasha (la modella Sasha Melnychuk, ndr), e mentre giravo Io Danzerò. Rompemmo, ci lasciammo in appartamento, fu un colpo. Credo che il francese fosse il modo migliore per esprimerlo, volevo fosse poetico, sexy e drammatico, ed è venuto fuori, senza giudizi o rimpianti.

Sei riuscita a ritrovare un certo equilibrio da allora?
A dir la verità, mi considero abbastanza estrema, non sono brava ad avere equilibri (ride, ndr). Sto imparando, ma già il fatto di essere diventata mamma è un aspetto cruciale nel provare a bilanciare le proprie priorità, personali e non.

Raccontare i sentimenti, proiettarli verso gli altri, quanto valore ha?
È quello che amo fare. Adoro approfondire le emozioni, che siano intense, ruvide, e provare a conversare in maniera aperta, vulnerabile. Viviamo in una società dove mettere filtri, barriere, sembra essere all’ordine del giorno, facciamo finta che le cose siano perfette, ma non è così. Quando mi chiedono, ad esempio, «come stai», beh non voglio sempre rispondere “bene”, no, non ci sto, è questo che mi fa male, quando sento le persone in maniera disonesta. Non è difficile indagare i sentimenti, ne ho attraversati tanti, per questo mi è impossibile fingere che tutto sia facile.

Il cinema è arrivato poi come una folgorazione, tanto da regalarti sempre progetti diversi, e nei quali ti vedremo, tra cui Little Fish, accanto a Jack O’Connell e Olivia Cooke.
Dovevamo presentarlo al prossimo Tribeca Film Festival di New York, poi purtroppo è saltato per la pandemia. Parla di una coppia che prova a tenere insieme il rapporto, mentre un virus, capace di far perdere la memoria, si diffonde, minacciando di cancellare la storia del loro amore e corteggiamento. È il primo film che ho girato dopo la nascita di Indigo, eravamo a Vancouver, lui aveva tre mesi e mezzo, e ogni due ore mi fermavo per allattarlo, era impegnativo. Ma Chad Artigan, il regista, stava per diventare padre pure lui durante le riprese, ed è stato così sensibile, così scrupoloso, da creare l’atmosfera giusta, di enorme supporto, facendo sì che l’esperienza diventasse bellissima. Poi ho girato una pellicola in Francia, A Good Man, insieme a Noémie Merlant (interprete di Ritratto della giovane in fiamme, ndr), incentrata, invece, su una coppia transgender che cerca di avere un bambino.

L’altro titolo è Mayday.
Una storia molto al femminile, e femminista, che si proietta in una sorta di terra onirica, nella quale delle donne-soldato combattono per tornare alla vita. Il cast è stato clamoroso, da Grace Van Patten, Juliette Lewis, a Mia Goth.

C’è un autore da cui vorresti farti dirigere?
Gia Coppola, ma i talenti intorno a me sono molti, lei è sicuramente una di questi.

Non hai mai pensato di cimentarti dietro la macchina o come sceneggiatrice?
Prima della maternità ci ragionavo, e le idee non mancano. Mi piacerebbe percorrere parallelamente quella strada, ma solo quando troverò il tempo. Adesso preferisco stare accanto a mio figlio.

Come hai trascorso questo periodo “sospeso”?
Molto presa, tra un sonnellino e un suo risveglio. Amo e pratico la meditazione, avrei voluto avere più tempo da dedicargli, d’altronde proteggere la propria mente è un aspetto importante per sentirsi bene, e io in generale ci provo. Dialogo regolarmente con il mio terapista, faccio yoga almeno tre volte a settimana, guardo film ovviamente. Recentemente ho recuperato su Netflix un bellissimo documentario, The Game Changers, spiega quanto è fondamentale prendersi cura fisicamente, e scienficamente, del proprio corpo, attraverso una corretta alimentazione e preparazione. Da alcuni mesi infatti sono diventata pure vegana, essere sani, te lo assicuro, vuol dire migliorare in tutto, compresa la vita sessuale!

Torniamo alla musica. Se dovessi sbilanciarti riguardo al tuo background, da dove partiresti?
In realtà è un mix di sapori
, dal folk al rock, come i Radiohead, recentemente mi sono innamorata di Solo Piano di Chilly Gonzales. Mi considero una nerd in questo senso, adoro preparare playlist sempre variegate. Quando scrivo, però, lo faccio in primis per me stessa, non mi rivolto ad una fascia di pubblico in particolare, ma se è significativo, allora, so che probabilmente toccherà più persone.

La moda è da sempre una forma d’arte, nella quale poterti esprimere, cos’è oggi innovativo?
Gucci e Alessandro Michele. È un genio. Penso che sia una delle poche persone del settore a essere così accogliente, vede il mondo in un modo diverso, lo ha reso più luminoso, colorato e di maggior inclusione, perché sa rispettare le differenze, di forma, genere, e ne rispetta il cambiamento.

Finiamo con Indigo, che ormai è diventato il punto cardinale della tua esistenza. Cosa ti piacerebbe che potesse apprendere di più?
Ora, più che mai, sto cercando di insegnargli una cosa: sentire i suoi sentimenti e accettarli, qualunque essi siano, ed è normale che si senta frustrato, che pianga, quando lo sgrido. Provo a spiegargli delle regole, ma nello stesso momento voglio che non si vergogni di ciò che prova. Io, a differenza sua, non ho avuto le stesse possibilità, per questo lo faccio, desidero proteggerlo, ma in un modo schietto, perché i bambini hanno il diritto di sapere, di scoprire il mondo, e di capire se è sicuro o meno.