Intervista con Antonio De Matteis, presidente di Pitti Immagine

Intervista con Antonio De Matteis, presidente di Pitti Immagine

di Paolo Briscese

Antonio De Matteis, neo presidente di Pitti Immagine e grande osservatore dell’estetica maschile racconta ad Icon la nuova edizione di Pitti Uomo sotto la sua guida

In un mercato globalizzato come quello della moda ha ancora senso parlare di Made in Italy? La moda può dirsi davvero sostenibile? E soprattutto, quali sono le principali sfide e le opportunità che la moda maschile si trova ad affrontare oggi? Ne abbiamo parlato con Antonio De Matteis, amministratore delegato di Kiton, di cui è anche direttore creativo del menswear, fresco presidente di Pitti Immagine. «Sarà un Pitti eccezionale!», promette l’imprenditore napoletano.

Cosa possiamo aspettarci dalla nuova edizione di Pitti Uomo, la prima sotto la sua guida?

«L’edizione che sta per iniziare, la n 104, nasce sotto ottimi auspici. 825 i brand che presenteranno le loro collezioni al salone, di cui il 41% esteri. I buyer dei più importanti department store, delle boutique di ricerca, dei retailer online che hanno confermato la loro presenza arriveranno – accanto all’Europa – da paesi quali ad esempio gli Stati Uniti, il Giappone, la Cina, la Corea del Sud, gli Emirati Arabi Uniti e altri ancora. Il team ha lavorato molto bene per preparare una ricca serie di eventi che richiamerà i grandi protagonisti della scena fashion internazionale. Fino a gennaio ero dall’altra parte e, come espositore, sono rimasto molto soddisfatto del precedente Pitti. Ci sono tutti i presupposti per vivere un’esaltante edizione e mi auguro sia così per le aziende e gli operatori che parteciperanno a Pitti Uomo 104».

Pitti Immagine Uomo

Qual è l’attuale stato di salute della moda, settore cruciale dell’economia italiana?

«Guardando ai dati delle aziende quotate, delle trimestrali, si registra una grandissima crescita. E la mia azienda (Kiton, ndr) è sicuramente in linea con questo incremento importante. Il settore moda ha reagito alla pandemia in maniera eccezionale: è stato tra i primi a recuperare i valori del 2019, anzi superandoli ampiamente. È in ottima salute. Logicamente tutti abbiamo dovuto rimboccarci le maniche e spingere sull’innovazione, sotto tutti i punti di vista, a partire dalla digitalizzazione dei brand. Sicuramente la pandemia ci ha insegnato tante cose, che ora ci stanno facendo crescere in modo esponenziale. Sono super positivo: ora siamo in pre-collezione e i buyer stanno arrivando con un feeling molto fiducioso sulla prossima estate».

Moda uomo: quali sono le principali tendenze emergenti?

«L’uomo ha un approccio verso la moda sicuramente diverso rispetto a qualche anno fa: compra per l’occasione d’uso, per divertimento, gli piace cambiarsi spesso, è attento alle scelte, con uno spirito molto vicino a quello del consumatore donna. Passa dall’abbigliamento elegante per l’occasione importante, con l’abito classico con camicia e cravatta, al look più sportivo e casual, con disinvoltura. La sua attenzione allo stile si estremizza durante le vacanze e nei fine settimana dedicati al relax. Questo ha favorito un grandissimo sviluppo della moda uomo, con un trend di sviluppo a livello globale anche più alto della moda femminile. Sono molto ottimista sulla prosecuzione di questa tendenza».

 


CHULAAP Designer Project

Quali le principali sfide e opportunità che la moda maschile affronta al momento?

«La sfida è riuscire a innovarsi, sempre, perché il cliente oggi è molto esigente, anche a livello di prodotto. È necessario proporre capi di altissima qualità, ma anche innovativi a proposito di stile e dettagli. Le nostre aziende sono chiamate a fare sforzi in avanti molto più velocemente di prima, rimodulando i propri canoni ogni sei mesi, ma senza tradire il proprio dna».

Ma cosa si intende per innovazione, termine a volte abusato oggi?

«L’innovazione è nelle forme, nello stile, nella selezione dei tessuti. La ricerca deve essere continua: la stagionalità esiste e non esiste, i grandi gruppi hanno eventi per tutto l’anno, a cui si presentano sempre con prodotti nuovi. Siamo tutti costretti – e lo dico considerandolo un obbligo benaccetto e stimolante – a dare sempre di più. L’imprenditore è un uomo che ama le sfide: per tutti noi è un bellissimo banco di prova».

Come sta cambiando il concetto di mascolinità nella moda?

«Oggi non parlerei di mascolinità o meno ma di grande eleganza. C’è un forte ritorno alla semplicità e alla raffinatezza, si cerca con cura l’abbigliamento giusto per ogni occasione, ognuno secondo il proprio dna, le proprie caratteristiche, la propria personalità. Questa è la chiave di lettura. Lo vedo anche nelle scelte dei nostri buyer: capi semplici ma eleganti. Il genere oggi è ultra superato».


Come si affronta il problema del fast fashion, promuovendo un modello di consumo più consapevole?

«Il punto è lavorare in modo serio, e non solo a livello comunicativo, nel creare capi altamente sostenibili, a partire dai materiali utilizzati. Ci deve essere una grande consapevolezza da parte di tutti. Anche le aziende che fanno dell’alta qualità il loro marchio, che puntano quindi su capi realizzati per durare nel tempo, sono chiamate a questo impegno. È un dovere collettivo guardare alla moda con occhio diverso».

In un modo globalizzato ha ancora senso parlare di made in Italy? Il prodotto italiano riesce ancora a competere per bellezza, capacità progettuale e qualità?

«Parlare di made in Italy è essenziale. Il mondo riconosce all’Italia una capacità produttiva e di rinnovarsi che nessun altro Paese al mondo ha. Lo vediamo anche nei grandi gruppi francesi che vengono a produrre in Italia, nonostante il loro blasone e la loro forza economica, per certificare la qualità. Il made in Italy è ancora e sempre di più una chiave di volta per il nostro settore, qualcosa che dobbiamo conservare creando delle scuole di formazione. Come Kiton abbiamo creato una scuola di Alta Sartoria nel 2000, 23 anni fa, in tempi non sospetti, per formare una nuova generazione di sarti. Nel 2000 l’età media dei nostri artigiani era di 55 anni, oggi possiamo dire con vanto che l’età media è di 36 anni. Abbiamo fatto un ricambio generazionale enorme. Tutti gli imprenditori del settore hanno il dovere di intraprendere questa strada prima che sia troppo tardi, senza aspettare sovvenzioni, leggi governative, fondi statali: bisogna iniziare e dare il buon esempio».

Secondo il report di Business of Fashion e McKinsey, la moda non ha preso abbastanza sul serio le proprie responsabilità ecologiche. Quanto è importante fare scelte etiche in quella che è una delle industrie più inquinanti al mondo?

«È più che importante, ma sarebbe giusto che ci fossero delle regole uguali e chiare per tutti. È da qui che bisogna cominciare a lavorare, non è possibile che ognuno possa autocertificarsi da sé, usando questo come argomento di marketing. Ci vogliono dei parametri univoci, che vadano dall’uso di fibre naturali alla creazione di capi durevoli nel tempo fino al consumo di fonti energetiche rinnovabili. Nel giorno in cui saranno stabilite delle regole, è certo che tutti gli imprenditori sani le rispetteranno».