«Sono un lupo, seduto davanti al mio pasto ma sempre affamato»: di aquile, isole, sbagli. Di film, video, libri. Di dio,
che suona il piano in salotto»

Eccola qui, la creatura rara: un uomo che non sa ciò che vuole (e, nell’ammetterlo, non si sente per questo meno uomo) ma che sa esattamente ciò che l’anima pretende da lui. Fossero anche contraddizioni. Sterzate. Balbettii.

Un divo anticiclico, Ethan Hawke: chiuso a teatro quando ci sarebbe da far soldi. A far soldi quando sarebbe meglio defilarsi. A scrivere libri quando la carriera cinematografica sembra al culmine e a girare documentari mentre l’editoria gli chiede un nuovo romanzo (che sarebbe il terzo, in caso).

Per lui l’attimo è perennemente fuggente. I giorni sono buche allineate da riempire col sudore della fronte: progetti, pièce, filmoni di sicuro successo che alla fine nessuno vedrà e produzioni indie di pronosticato insuccesso che lo porteranno in vetta. Il tutto, punteggiato dagli eterni interrogativi sul proprio mai digerito status di celebrity.

Nello studio fotografico newyorkese dove ci stringiamo per la prima volta la mano si presenta in abito scuro, cappotto spigato appoggiato sulle spalle, un sandwich pollo e bacon addentato con piglio da cowboy. Sembra estremamente sicuro di sé, e invece: «Le dispiacerebbe lasciarci soli? Mi mette a disagio sentirmi osservato mentre poso» dice, con gentilezza, ma senza appello.

Dopo 45 film, 23 anni di successi (L’attimo fuggente è del 1989), le nomination all’Oscar e un matrimonio finito con Uma Thurman, Hawke è un uomo di quarant’anni non ancora sicuro che esista un modo per restare divi e salvarsi l’anima allo stesso tempo.

Per l’intervista decidiamo di incontrarci il giorno successivo, di buon mattino, in un locale di Chelsea in stile francese dove sembra un habitué. Una camicia rossa col profilo di un capo indiano stampata sulle spalle («Geronimo è il mio eroe») è la scelta del giorno. Per colazione, yogurt e muesli, una macedonia enorme e un cappuccino grande come una zuppa di fagioli.

Gli sms a raffica della seconda moglie Ryan gli ricordano impegni e commissioni, mentre ancora si stropiccia gli occhi dopo una notte passata a stringere mani e sorridere ai flash per un party di raccolta fondi per la sua nuova compagnia tea-trale.

Sempre diviso tra off e mainstream, ha appena finito di girare quattro film: un horror, un fantasy, una storia romantica e un action movie. Mentre contemporaneamente prepara per Off Broadway un dramma di Cechov e uno spettacolo tratto da Bertolt Brecht. Nella sua esistenza, un filo conduttore non c’è. Anzi, sì: «Non posso rallentare. Se mi fermo, pietrifico».

Stare davanti alla macchina fotografica la intimidisce tanto?

«Non m’intimidisce. Ma allo stesso tempo, lo ammetto, ho come l’impressione che non sia fino in fondo una cosa da uomini. Non mi fraintenda: finché c’è da stabilire un rapporto col fotografo, è ok. Ma se c’è qualcuno che guarda, tutto comincia ad apparirmi frivolo».

Il suo sangue texano torna a ribollire.

«Ci ho pensato anch’io: forse. Guardi come sta cambiando il mio corpo, ad esempio: ero un giovane delicato e filiforme, e ora sono un uomo massiccio, quasi agricolo direi. E il bello sa qual è? Mi sono sempre immaginato così».

Quindi il mito dell’eterna giovinezza non alberga in lei?

«Al contrario. Ho sempre avuto fretta di crescere, d’invecchiare. Per tutta la vita ho desiderato una faccia da spaghetti western, da Franco Nero, James Coburn, Giuliano Gemma. Mi sto trasformando in armonia coi miei sogni, incredibile. Anzi, se in Italia c’è un regista intenzionato a far rinascere il genere, sappia che io ci sono».

La camicia che indossa oggi, con le effigi indiane, è uno strumento per sentirsi potente?

«Il mio senso dello stile s’è formato in Texas, non c’è dubbio. Mio padre ascoltava solo country e mio nonno era un politico repubblicano che ha combattuto il Ku Klux Klan ma che in fatto di look era decisamente conservatore. Maschio, per me, ha sempre significato frange, cravatte di cuoio, fiori, cavalli, pistole».

Maschio per molti significa anche decisionismo, strada dritta. In questo senso lei sembra piuttosto diviso, fluido, oscillante. In vita sua ha detto molti no?

«Al contrario, moltissimi sì. Ma li ho detti soltanto a me stesso».

Il più grande no che conteneva il più grande sì?

«A Jack Nicholson, per un blockbuster di cui non posso rivelare il titolo. Avrei dovuto rinunciare alla pubblicazione del mio primo romanzo, The hottest state. E ho scelto la letteratura».

A Hollywood si considera un eretico e un ribelle?

«Più che un ribelle mi considero un lupo: costantemente seduto davanti al mio pasto ma costantemente affamato».

Film, romanzi, libri. Sembra che lei, di nuovi progetti, quasi si stordisca.

«Sa che c’è? Un uomo non è un uomo se non percorre almeno ogni giorno i pioli di una scala. Io la mia carriera non la cambierei con nessuno. Ho fatto i film che volevo. I video. I libri. Gli sbagli. I grandi ribelli sono quelli che seguono il proprio cuore».

Carpe diem.

«Succhiare il midollo della vita, che meraviglia… Un verso che s’è iniettato nella mia psiche e non m’ha abbandonato per vent’anni. Spezzare le catene è stato difficile».

Le catene?

«Anche cogliere l’attimo e succhiare il midollo della vita possono diventare abitudini. Perché non impari mai a vivere davvero. Ho capito invece che per essere felici occorre lasciare che l’esistenza si srotoli un po’ da sola. Se sei vigile, ne succhierai il midollo lo stesso».

Il miele della celebrità, invece, lo assapora sempre con rigetto.

«Non è miele, è veleno.  E per un artista, il più mortale: bloccare la crescita».

Perché la fama non può essere semplicemente una fantastica opportunità?

«Mi limito a una carrellata di nomi: Amy Winehouse, Janis Joplin, Elvis Presley, River Phoenix. Fino all’ultima vittima, Whitney Houston, che più andava in rehab e più diventava famosa. Di fronte a tutto questo una star si chiede: ma perché mai dovrei migliorarmi? L’ego così diventa una bomba a orologeria. E difatti questa maledetta celebrità non c’è nessuno al mondo che sia in grado di gestirla».

Nessuno davvero?

«Bob Dylan. Forse solo lui».

E come s’è salvato?

«S’è salvato perché la sua ispirazione è una fiamma pura. L’unico antidoto è possederla».

Il divorzio da Uma Thurman è stata una mossa inconscia per mettere una distanza definitiva tra lei e questo fantasma?

«Forse. O semplicemente non ero tagliato per essere il marito di una donna famosa. O ancor più semplicemente, nutro una sincera allergia verso lo stile di vita superfantastic».

I soldi le fanno paura?

«Ecco un altro grande conflitto della mia vita: nutrire il serpente oppure no? E, se sì, fino a che punto? Tutte le volte che ho tentato di sbancare al botteghino ho fallito, come è accaduto insieme alla Jolie in Identità violate. Quando invece ho girato film per il solo gusto di farli, vedi Prima dell’alba, ho fatto centro. A questo punto m’interessa che si parli di me come di un artista che non ha avuto paura di tenere la schiena dritta e di stare ben piantato nella propria terra».  

Difficile trovare un denominatore comune tra le cose che fa.

«Vediamo: quest’autunno debutterà Clive, un adattamento da Bertolt Brecht in cui canterò e suonerò. In inverno porterò in scena Ivanov, di Checov. E pian piano usciranno i quattro film girati tra la primavera e l’estate: l’action movie The Gateway, l’horror Sinister, il fantasy Destruction, il thriller Vigilandia e il seguito di Before sunrise. In effetti sì. Travolto da una brutale corrente, direi».

Sentirle dire “action movie” ad esempio suona strano.

«E perché? Il genere “tette e pistole” mi piace».

L’impressione invece è che utilizzi Hollywood come una specie di bancomat: passa a ritirare ogni tanto per poi lavorare tranquillo alle cose che le interessano davvero.

«In un certo senso è vero. Se fosse per me non farei altro che piccoli progetti, difficili e strambi, a teatro. Ma nessuno verrebbe a vedermi. Uso Hollywood per mantenermi, diciamo così, rilevante».

Come bisogna immaginarsi il suo appartamento di Chelsea?

«Un piccolo brownstone pieno di libri, chitarre, distorsori e poster di film. Il posto dove sto più volentieri al mondo. Il posto dove c’è dio».

E chi è dio?

«Dio è vedere mia figlia di 13 anni che prova gli accordi sul divano. Che mi apre i suoi sentimenti. Dio, seduto nel mio salotto».

È vero che possiede un’isola?

«Per quanto possa sembrare stravagante, sì. Si trova in Nuova Scotia: al polo nord, praticamente. Ci ho costruito una capanna di pietra e legno e ci vado coi miei quattro figli (i due avuti da Uma Thurman, e quelli dal matrimonio con Ryan, ndr). Passo il tempo osservando le aquile, le foche, cavalcando e andando in canoa».

Un periodo selvaggio l’ha avuto?

«Subito dopo il divorzio, quando ho deciso di trasferirmi per due anni al Chelsea Hotel. Ero depresso e mi pareva d’impazzire. Là, in mezzo a matti veri, sono riuscito a sentirmi normale».

In quelle stanze hanno vissuto Cohen, Dylan Thomas, Sid Vicious. Lei cosa cercava?

«Cercavo le mie muse. Le cercavo nei muri, perché i muri di quel posto parlano. Trasudano mistero e sensualità. Tornavi a casa di notte e ti trovavi a passare davanti a una porta aperta con venti persone impegnate in una festa hard. Nei corridoi incontravi viaggiatori giapponesi in cerca del fantasma di Sid Vicious e della sua ragazza Nancy, accoltellata qui. Professori di lettere che evocavano lo spirito di Dylan Thomas. Difficile trovare in un solo posto così tanta gente con uno stato di coscienza alterato».

A suo fratello, che è un berretto verde, i suoi discorsi sembreranno piuttosto vacui e strambi.

«Può darsi. Ma siamo cresciuti insieme e in fondo mi capisce. Di certo le nostre vite sono molto diverse. Lui è un leader nato, ha convinzioni ferree e morirebbe per difenderle. Non per niente, ora si trova a prestare servizio in Afghanistan».

Non le chiede mai di essere più politico e incisivo nei suoi progetti artistici?

«Il mio sogno, quando sarà finalmente tornato a casa, è scrivere un film insieme. Una cosa forte, sulla guerra, tutta raccontata dal suo punto di vista, senza mediazioni».

Rispetto a suo fratello, o gli anni del Chelsea Hotel, la sua vita di oggi non le appare noiosa?

«No. Perché non mi fermo mai. Studio, evolvo, riparto».

È vero. C’è da sfamare il lupo

«Qui la fame non c’entra. È un progetto su me stesso. Sa cosa voglio? Che la seconda parte della mia vita sia ancora più incredibile della prima».

foto :  Mark Seliger

fashion editor : Andrea Tenerani

testo:  Raffaele Panizza

Grooming: Vaughn for Mizu New York