Cercare quotidianamente la via per diventare migliori degli altri, il migliore di tutti: è da questi particolari che si giudica un giocatore

Paul Pogba è diventato calciatore di sabato. Uno dei due al mese che, da bambino, dedicava a questo sport, dato che negli altri due giocava a ping pong. Calcio e ping pong, entrambi con la stessa passione, finché la vita non gli ha messo davanti il primo bivio e Paul ha deciso, complice due fratelli maggiori calciatori professionisti.

«Anche se ho scelto da solo», ci tiene a precisare il ragazzo, «alla fine se ci penso bene ho sempre voluto fare il calciatore». Ma di Paul al passato parliamo più avanti, iniziamo dal presente. «Alla Juventus sto benissimo, mi sento a casa», risponde quando gli si chiede come se la passi a Torino. La solita frase fatta, verrebbe da dire, una delle tante di cui sono costellati gli stanchi riti della comunicazione calcistica. Se non fosse che per almeno quattro generazioni di ragazzini francesi che sognano o hanno sognato di fare il calciatore, la maglia bianconera è davvero qualcosa di speciale. E lo è per una ragione elementare, che di nome fa vittorie e di cognome fa Platini, Deschamps, Zidane, Trezeguet, Thuram: 1.134 presenze, 492 gol, 9 scudetti, 2 Champions League, 2 coppe intercontinentali.

Il capitano della Francia campione d’Europa nel 1984 giocava nella Juve, quello della Francia campione del mondo nel 1998 pure, così come erano juventini l’uomo che ha segnato la doppietta nella finale col Brasile di Parigi e l’autore del golden gol che è valso l’Europa due anni dopo, in Olanda. Già, la Juventus e i francesi, una lunga storia d’amore. E se però si insiste sull’argomento e si chiede a Paul a quale degli eroi transalpini in bianconero si senta più vicino, lui mostra molto rispetto e altrettanta ammirazione per tutti, nomina per forza di cose Zidane prima degli altri, ricorda che per emozionarsi con Platini lui è troppo giovane (Pogba è del 1993, “Le Roi” si è ritirato dall’attività nel 1987), ma alla fine non indica un modello in particolare, anzi, si sgancia e rilancia: «Spero di fare meglio di tutti loro».

Questo della voglia di provare a superare chi l’ha preceduto e chi lo circonda, perchécredo che la differenza fra un campione e un giocatore forte stia nel cercare quotidianamente la via per essere migliori degli altri

è un concetto cui il ragazzone nato a Lagny-sur-Marne, appena fuori Parigi, tiene particolarmente, a giudicare dalle volte e dal modo in cui lo ripete durante la conversazione che intrattiene con Icon, a margine del servizio fotografico. E così due icone come Pirlo e Buffon, diventano ai giovani e concentrati occhi di Paul «due campioni assoluti, che mi danno una grande forza e mi spingono a cercare di fare meglio di loro». A proposito di voler fare sempre meglio, sentite questa:

La perfezione non esiste, ma è quello a cui devi tendere se vuoi diventare un numero uno. Lavorare, ricercarla ogni giorno

Presunzione? Consapevolezza, più che altro. Di chi è oggi Paul Pogba ma, soprattutto, di chi possa diventare. È proprio quando si arriva al discorso sul domani, sulle potenzialità infinite, sul futuro da predestinato che lo aspetta, che viene fuori chiaramente che quella del centrocampista francese non è la solita spocchia del fuoriclasse appena sbocciato, ma il modo di vivere e di comunicare un preciso piano strategico: «A cosa aspiro in futuro? A migliorarmi. In tutto. Se uno come Cristiano Ronaldo quest’anno ha vinto il Pallone d’Oro è perché è completo: fisico, tecnica, tattica, fondamentali, testa». Pallone d’oro, come a dire “siete tutti avvisati”. Sapere che si è forti è una cosa che spesso accomuna chi lo è. Aggiungere che si potrebbe non esserlo per sempre e che non lo si sarà mai abbastanza, è roba per pochissimi, specie a ventun anni appena compiuti: «Non ho raggiunto ancora nulla. I veri campioni sono quelli che stanno al top per anni, Pirlo per esempio. È pieno di calciatori che esplodono una stagione e poi non ne senti più parlare. Io lavoro sodo tutti i giorni per non essere uno di loro, per migliorarmi, per confermarmi».

Parlando con Pogba della sua storia, ci si accorge presto che in fondo lui lo sa da sempre di valere molto ma di dover lavorare durissimo per riuscire a dimostrarlo. Già a quindici anni, quando il Le Havre, il club francese in cui milita, dà segni di non puntare forte su di lui in prospettiva futura, cede alle sirene inglesi – non senza litigare coi vertici della squadra francese, resasi conto in extremis di cosa stava lasciando andare – e si trasferisce alla sconfinata corte di Sir Alex Ferguson. Be’, ovvio, direte voi. Chi non vuole andare al Man Utd. Precisazione doverosa per i meno avvezzi alle dinamiche calcistiche: arrivare a Manchester, sponda United, a quindici anni, non significa avercela fatta, anzi, significa dover lavorare il triplo per riuscire in un ambiente molto più competitivo (chiedere a Giuseppe Rossi, acquistato dai Red Devils a 17 anni, il quale poi ha dovuto lottare anni a medi livelli prima di far esprimere il campione assoluto che è oggi). Lo United a quindici anni è un punto di inizio, una riga sopra al passato lusinghiero di campioncino locale. È l’esatto opposto di una consacrazione. Il difficile è capirlo a quell’età. Ma Paul è diverso e ha fretta di farlo sapere al mondo, accetta la sfida, passa la Manica armato di sola mamma, impara la lingua, si fa nuovi amici, assapora quella che lui stesso definisce «una bella esperienza di vita.

A Manchester sono diventato grande». Dopo due anni, all’inizio della stagione 2011/12, è lo stesso Ferguson a dichiarare che Pogba sarebbe stato aggregato alla prima squadra, perché lasciarlo ancora in attesa avrebbe significato perderlo allo scadere del contratto. In realtà Pogba gioca molto con la squadra riserve, e fa capolino fra i titolari non più di tre volte. È qui che si fa viva la nuova Juve di Agnelli e Marotta, in cerca di occasionissime per dare piedi, cervello e talento alle rinnovate ambizioni del club. Oh, la Juventùs. Mais oui, purquoi pas, perché no? E così, come tre anni prima, Paul sceglie, non ci pensa due volte e va. Alla ricerca di chi crede in lui ed è disposto a dargli i mezzi per perseguire il suo obiettivo: lavorare per diventare il migliore. Il caso e la storia vogliono che a Torino, da un anno, sia arrivato un tecnico con la stessa ossessione di Paul, quella del lavoro quotidiano come mezzo per arrivare alla vittoria. Perché se Paul Pogba è diventato in meno di due anni di Juventus quello che è oggi, uno dei giocatori più ambiti a livello mondiale, è innegabile che buona parte del merito vada ad Antonio Conte, uno che ha capito che il segreto è far sentire i non fuoriclasse indispensabili, e i fuoriclasse legati a doppio filo alle sorti di un gruppo, di un club, di una squadra. Conte accorcia le distanze fra i singoli, finendo per compattare il gruppo e spostare il baricentro di tutti e di ognuno verso l’alto. In campo, come fuori. In questo tipo di impianto, Paul sboccia, e la sua ambizione con lui. Grazie al Mister, certo, ma anche grazie a un centrocampo che non ha nulla da invidiare alle grandi d’Europa, visto che i suoi compagni di reparto si chiamano Andrea Pirlo, Arturo Vidal e Claudio Marchisio.

Naturalmente, nel 2013, l’anno del Mondiale under 20 vinto da protagonista (con tanto di titolo di miglior giocatore del torneo), arriva anche la prima convocazione con la nazionale francese maggiore guidata in panchina, guarda un po’ il destino, da un certo Didier Deschamps. Inutile dire che per i Mondiali in Brasile è uno degli uomini più attesi. Fa una faccia stupenda Pogba, quando gli nominiamo la nazionale. Simile a quella che potrebbe fare un qualsiasi ragazzino di qualsiasi parte del mondo al quale si comunicasse che un giorno giocherà per la squadra del proprio Paese. Alza gli occhi al cielo, sorride, deglutisce, tradisce una certa emozione, raccontando il giorno della prima convocazione per i bluettes, la nazionale under 16, come se fosse stato ieri. Eppure domani è dietro l’angolo, e domani vuol dire mondiali, quelli veri, Brasile appunto, un altro palcoscenico. Anzi, il palcoscenico per antonomasia, se di lavoro tiri calci a un pallone. Roba forte, da brividi. Ma far venire l’ansia a Pogba pare impresa disperata. Il ragazzo è consapevole, lo si è detto, ha la calma dei forti fra gli accessori base. E poi si diverte. Sì, Pogba si diverte molto, in campo, fuori, sempre. «Mi piace la vita, tutta. La vita è breve, come la carriera di un calciatore, quindi va goduta per intero. Tutto va velocemente. Ieri ero a Manchester e avevo 15 anni, oggi sono qui e ne ho 21. La risposta migliore è fare tutto il bene possibile per se stessi e per quelli a cui sei legato. E concentrarti su quello che vuoi fare». Che sarebbe giocare a calcio, dice lui. E provare a farlo meglio di chiunque altro, aggiungiamo noi. Paul Labile Pogba da Lagny-sur-Marne. Ne sentiremo parlare a lungo. 

Fashion Editor: Andrea Tenerani
Foto: Max Vadukul
Fashion Contributor: Ilario Vilnius.
Fashion Assistant: Marco Dellassette.
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Si ringrazia lo Studio Fotografico Phlibero di Torino