Uno scrittore appassionato di portieri incontra la leggenda del calcio italiano. Per parlare di miti (veri e presunti), colpi di reni, rigori della memoria

Si presenta con sorrisi e battute, ma quando ci sediamo e toglie gli occhiali scuri, l’espressione diventa seria. Sul volto compare la stanchezza per lo sfortunato posticipo con il Napoli della sera precedente, ma è solo un attimo. Mi guarda negli occhi, con lo stesso sguardo concentrato con cui si è abituati a vederlo in tv, mentre dispone la barriera o guida i compagni. Colpisce la capacità di passare da un registro all’altro. In fondo è così anche la sua carriera, da enfant prodige guascone e irriverente con la maglia del Parma a capitano e uomo simbolo di Juventus e Nazionale. La Fifa lo ha eletto miglior portiere degli ultimi venticinque anni, il più forte del XXI secolo. A lui importa solo essere Gianluigi Buffon, il portiere. «Di cosa parliamo?»: la prima domanda la fa lui. Parliamo di portieri: icone, miti e fascino dei numeri uno. Annuisce, il tema gli piace, così inizia a soppesare le parole, lentamente. «Il ruolo del portiere mi ha sempre affascinato ancor prima di praticarlo. Mi colpiva la diversità dagli altri calciatori già dal suo abbigliamento. Potersi vestire come vuole, indossando guanti e cappellino, lo rendevano ai miei occhi già di per sé un personaggio». Personaggio gli piace, più della parola “mito” di cui abuso nelle mie domande. Per essere un personaggio occorre un’identità forte e una personalità in grado di imporsi nella propria epoca: in un calcio in continua evoluzione nessuno infatti è eterno. «Creare dei miti può esser bello per avere punti di riferimento, ma occorre anche “smitizzare”. Tra cinquant’anni il calcio sarà diverso, più difficile. E anche avere come riferimento Buffon avrà poco senso, così come oggi ha poco senso richiamarsi a Ricardo Zamora o a Lev Jašin: il calcio di allora e quello di oggi, sono ormai sport diversi».

Nessun mito, d’accordo, ma modelli quelli sì. «Ho iniziato a giocare in porta sull’onda emotiva dei Mondiali di Italia 90, appassionandomi alle prodezze del portiere del Camerun Thomas N’Kono, il mio idolo incontrastato – tanto da chiamare il primo figlio Louis Thomas. Quando è diventato il mio lavoro, ho iniziato a seguire una serie di colleghi che mi piacevano, ognuno per una caratteristica che lo contraddistingueva». Schmeichel per la prepotenza, Marchegiani per l’eleganza, Peruzzi e Bucci per l’esplosività, Pagliuca per la sicurezza. Tutti i grandi numeri uno, fatti fuori nella fulminea ascesa alla maglia azzurra, di cui è recordman di presenze dopo aver polverizzato Zoff anche per il numero di partite in bianconero. A questi nomi ne aggiunge due non scontati: Franco Mancini, del Foggia di Zeman, morto per infarto nel 2012 a quarantatre anni, per l’esuberanza dentro e fuori dal campo – giocava più con i piedi che con le mani e nel tempo libero suonava in un gruppo reggae. E Sebastiano Rossi, per la solidità: «Anche se molti sembrano essersene dimenticati, è stato un portiere di assoluto livello». Mattate a parte, infatti, detiene ancora il record di imbattibilità in serie A; e per due lustri ha difeso il posto da titolare nel Milan disintegrando colleghi in apparenza più quotati.

L’ammirazione di Buffon, però, nasconde sempre un obiettivo: impadronirsi del meglio dai migliori per essere il più forte di tutti. «Credo di poter dire, senza falsa modestia, che ciò che rende particolare la mia carriera sia stata la capacità di impormi a soli vent’anni in Nazionale, in un periodo di grandi campioni al top della loro forma».

Adesso le parti sono invertite. Buffon ha raggiunto le trentasei primavere e dopo anni di magra si è ricreato in Italia un serbatoio di portieri forti e giovanissimi: Perin, Bardi e soprattutto Scuffet che molti già indicano come il predestinato a raccoglierne l’eredità. Chiedo se per loro il confronto possa essere uno stimolo o rischi di bruciarli. «Dipende dai singoli caratteri. Fin dagli esordi dicevano di me che sarei stato il nuovo Zoff o il nuovo Jašin. All’inizio era piacevole, ma presto iniziò a pesarmi. Non ho mai voluto essere né l’uno né l’altro, ma solo Buffon Gianluigi. Sono convinto che anche Perin, Bardi, Leali, Scuffet e lo stesso Sirigu, provino un po’ di fastidio. Chi fa questo mestiere vuole essere se stesso, non il nuovo Buffon o il nuovo Zoff, anzi coltiva dentro di sé il sogno di essere migliore». Cita a proposito l’esordio in Nazionale a soli diciannove anni.

29 ottobre 1997. Mosca. Russia–Italia. Gara di andata dello spareggio per i Mondiali in Francia. Lo stadio è una bolgia. Nevica e il campo è ghiacciato. Indisponibile Peruzzi, gioca Pagliuca, ma si fa male dopo mezz’ora. Entra Buffon ed è decisivo per il prezioso uno a uno finale. Il giorno dopo una giornalista russa gli chiede se pensa di poter diventare il più forte portiere della storia dopo Jašin, lui sbotta: chi ti ha detto che non sarò migliore anche di lui?, suscitando scalpore. Tanto per capirsi parliamo del “Ragno Nero”, unico portiere Pallone d’Oro (1963), eletto dalla Fifa come il migliore di tutti i tempi e insignito in patria dell’Ordine di Lenin come Eroe del lavoro socialista.

«Confesso che riguardando le interviste dell’epoca provo vergogna per il mio atteggiamento da guascone, per la persona che ero e che non sono più. Allo stesso tempo mi rendo conto che quella sfrontatezza è stata la mia forza, che mi ha permesso di impormi per quello che ero senza schermarmi, a costo di attirarmi critiche». La storia gli ha dato ragione, sfiorando egli stesso nel 2006 il Pallone d’Oro. «Io l’ho visto da vicino, qualcuno, Cannavaro, lo ha portato a casa», scherza e ammette: «Ormai per me è un non-pensiero».

A proposito di storia, racconta che la parata finora più emozionante della carriera è quella sul penalty del romeno Mutu all’Europeo 2008 e si arrabbia, giustamente, quando gli ricordo che qualcuno sosteneva fosse scarso sui rigori. «Siamo il paese dei luoghi comuni: in carriera ho parato il 28-29% di quelli calciatimi contro e ciò a livello mondiale mi pone almeno sul podio». Consapevolezza, non spavalderia, perché la storia che ha messo a tacere “le critiche dei vili” è dalla sua, perché ciò che è rimasto costante in vent’anni di carriera è l’umiltà dell’impegno in allenamento. «I miei genitori che hanno fatto atletica, mi hanno insegnato il valore del sudore e quanto siano importanti capacità introspettiva e autocritica». Non aveva dunque ragione Albertosi nel dire che un portiere non deve mai pensare di avere sbagliato altrimenti è fregato? «Pensare positivo aiuta durante la partita, ma dopo analizzare gli errori è fondamentale per migliorarsi». Decisivo è l’equilibrio mentale: «Se è vero che occorre curare fisico, tecnica e mente, è altrettanto vero che un portiere con un fisico straordinario ma una testa debole fa meno strada di un portiere forte di testa ma con scarse doti fisiche». Poi confessa:

«Credo che ognuno di noi nasca con un destino che guida la sua vita, il mio era quello di diventare Gianluigi Buffon, il portiere».

Non chiedo un pronostico sui Mondiali in Brasile, piuttosto cosa provi a essere indicato da Prandelli come l’unico titolare sicuro: maggiore l’orgoglio o il carico di responsabilità? «Vivo per le responsabilità, più sono alte e più è gustosa la sfida. Quando non sentirò più il fuoco dentro sarà la fine. Non sono però così sciocco da pensare che sia vero. Il Mister ha voluto farmi una carezza ed è stata piacevole, ma sono consapevole che quella maglia me la devo meritare giocando».

Il nostro tempo purtroppo è finito. Prima che lo portino nei camerini per il set fotografico scattiamo un selfie e gli dono Portieri eroi di sventura, che ho da poco dato alle stampe: storie di numeri uno tra genialità e follia. «Lo leggerò e se hai scritto qualche cazzata ti vengo a cercare», dice, andandosene come è arrivato: scherzando e sorridendo. E mentre mi chiedo come reagirà nel leggere che N’Kono giocò perché il titolare Bell era inviso al governo camerunese, mi fa avere l’autografo che avevo chiesto per Davide, un ragazzo pratese che combatte per la vita. Non se ne è dimenticato. Anche io mi son ricordato di dirgli che baratterei sette anni di vita per essere al suo posto nella parata che valse il Mondiale del 2006, quando alzò sopra la traversa l’incornata di Zidane. Ma mi son scordato di dirgli che tifo Toro.

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Foto:  Max Vadukul
Fashion editor: Andrea Tenerani