Sulla via del ritorno

Sulla via del ritorno

di Giovanni Montanaro

Segni del tempo che passa. E quella possibilità di poter sempre tornare indietro

E poi rivediamo su YouTube Roberto Baggio che segna alla Cecoslovacchia, John Kennedy che sorride o Vittorio Gassman che fa Brancaleone da Norcia. I film di Frank Capra in una tv locale. Sandra Mondaini e Raimondo Vianello. Alida Valli. Troviamo lettere in cui si giurano amori eterni che non ci sono più. Troviamo lacrime che non pensavamo di avere.

E gli scontrini, gli appunti, i contrassegni di un parcheggio che restano incastrati nella tasca di una borsa e vengono fuori a distanza di anni.

Un libro di scuola. Un mal di schiena che prima non c’era.

Le stesse poesie di Auden e di Montale. Le canzoni di Lucio Dalla o il Nessun Dorma di Pavarotti. Forever Young degli Alphaville.

Gli slalom di Alberto Tomba, Ayrton Senna, le cartine geografiche e le vasche da bagno. Una cabina telefonica o un pacchetto di Big Babol. Il legno dei tram di Milano. Un punk dal fruttivendolo. Un paio di jeans in cui non entriamo più ed è una fortuna, visto che sono slavati, sdruciti e scampanati. Il sorriso del nostro panettiere ormai in pensione, quando lo vediamo dal giornalaio. L’orologio del nonno, chissà perché ha voluto che lo tenessimo proprio noi tra tutti. Un ciclostile di quando si andava all’università in pieno Sessantotto.

Sentiamo il tempo che passa. Quando guardiamo la prima serie di Grey’s Anatomy, e poi la pubblicità dell’ultima. A Natale e col primo bagno in mare. Quando abbiamo paura, la domenica pomeriggio, o presto all’alba, che la vita stia scappando via. Se desideriamo, invece, che una brutta giornata e un dolore se ne vadano in fretta. Lo percepiamo tra una poltrona, un tavolo, una finestra; perché proprio lì c’era una persona. Quando ci sorprendono, in sogno, dei volti, e ci chiediamo se, in qualche modo, ci sono ancora. Intorno alle scolaresche piene di bambini di ogni colore. Vicino alle cose che crescono: i pomodori nel terrazzo, venuti su anche se non sono stati annaffiati. Nelle fotografie e, più di tutto, nelle scatole.

Il tempo passa, cambia, qualche volta spiega, più spesso scorda. Lo sentiamo all’improvviso, se arriva un bambino, un regalo, un anello o anche solo una canzone al supermercato. Altre volte, lo andiamo noi a cercare. A sfidare. Quando afferriamo un libro che ci farà male o varchiamo la soglia di un ospedale dove qualcuno ci aspetta. Dobbiamo farlo. Per sapere chi siamo e che ci siamo. E così passeggiamo sotto a una casa dove abbiamo abitato o amato. Facciamo una telefonata che ci ripromettiamo da tempo. O magari, una sera, rifacciamo quella stessa strada che ci porta sempre nello stesso punto, un negozio, un ponte, una piazza. Non abbiamo uno scopo, se non capitare lì, dove siamo già stati. Lì l’abbiamo maledetto, il tempo, la fine delle cose desiderabili. Lì, altre volte, l’abbiamo benedetto, per gli inizi a cui non speravamo più. E tutti quei dolori, sorrisi, promesse, libri, baci, vestiti, amori, storie, fallimenti e vittorie. Ce li abbiamo ancora indosso. Sono nostri, per sempre. E più passa il tempo più custodiamo cose che abbiamo solo noi, persone che ricordiamo solo noi. E allora sì, capiamo che da quel negozio, quel ponte, quella piazza, possiamo anche tornare indietro.

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Giovanni Montanaro, 30, è scrittore di teatro e di romanzi, di cui l’ultimo è Tutti i colori del mondo (Feltrinelli, 2012)