Un nome, una biografia e un fascino infiniti. Storia di una divina scoperta dall’Italia

“Uno e 83, 73 chili, 45 di piede. Ha vissuto nuda creando sogni vertiginosi e scatenando deliranti gelosie. Nata contessa Vera von Lehndorff, è…”.

Ecco perché uno diffida di Twitter: Veruschka, nome d’arte della nobildonna prussiana nata il 14 maggio 1939 nella regione dei laghi Masuri, in 140 caratteri non ci sta. Come avete letto sopra, non ci sta neppure il nome per esteso, che è Vera von Lehndorff-Steinort. E non ci sta neanche a volerla condensare nel suo pensiero guida: “La vita è un sogno in cui devi inventarti di continuo”. Neanche a scorciarla, come fece fare con le proprie dita dei piedi (è passata attraverso un supplizio cinese per sentirsi più bella). A malapena si può comprimerla nelle 330 pagine della sua biografia, scritta con Jorn Jacob Rohwer e da poco pubblicata da Barbès Editore.

Veruschka è la più leggendaria delle modelle, forse l’unica opera d’arte naturale dopo Afrodite, ma con una marcia in più rispetto alla dea: che la sua bellezza, sinuosa senza curve, è sempre stata cangiante e poliedrica, non solo donna ma anche tigre e serpente, pietra e corteccia. La bellezza dell’universo. E solo i mercanti d’arte diranno che furono, i suoi, suggestivi esercizi di body painting. Gli occhi degli umani la vedono come meraviglia del creato. Ed è vanto degli italiani essersene accorti per primi. Come lei stessa ha raccontato a Laura Incardona, del settimanale Grazia: “Nel 1959 ero a Firenze e un ragazzo mi fermò per strada e mi chiese se volevo fare delle foto con lui. Aveva una luce così bella negli occhi che risposi subito di sì”. Il fotografo era Ugo Mulas. E i ricordi più intensi la legano all’Italia: da Franco Rubartelli, il fotografo per molti anni al suo fianco anche nella vita (“era gelosissimo”) a Michelangelo Antonioni (“taciturno, melanconico e misterioso”) che l’ha resa protagonista di poche immortali sequenze in Blow Up.

Chi l’ha vista, prima vera top model quando la definizione doveva ancora essere inventata, non può dimenticare la sua camminata, fluida e lenta, da tenerti col fiato sospeso passo dopo passo. Chi l’ha vista, in quegli anni (i formidabili, terribili anni a cavallo tra i 60 e i 70) deve oggi inchinarsi al mito e rispettarne la vita reale. Quella è un’altra storia, intrisa di sangue e drammi che si legge tutta sul suo bellissimo, inquietante volto “distrutto” (parola sua). Perché, sin da quando il padre, cospiratore antihitleriano, fu impiccato dopo il fallito attentato del 20 luglio 1944, Vera ha vissuto in un’ombra cupa, che l’ha portata anche a tentare il suicidio. Noi vogliamo vedere solo la luce del suo corpo e del suo viso, musa di Dalì e di Helmut Newton, di Richard Avedon e di Gian Paolo Barbieri.

E ascoltare le sue parole: “Nella mia vita hanno sempre giocato un ruolo importante sia l’immagine che il mondo interiore, sia la pietra che la natura. Adesso è la parola che mi attira: un mondo senza le parole è un mondo colmo di ferite”.

Testo di Santi Urso
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