Italo Rota: «La resilienza umana produrrà soluzioni che non avremmo mai immaginato»

Italo Rota: «La resilienza umana produrrà soluzioni che non avremmo mai immaginato»

di Paolo Lavezzari

Ipotesi e proposte per un nuovo contratto sociale tra uomo e natura. Il punto di vista dell’architetto Italo Rota

Buona regola è agire per tempo, ma «il dramma dell’umanità è che finché non arriva al precipizio non si ferma». A dirlo, con cognizione di causa, è Italo Rota, architetto che lavora da oltre 30 anni sul tema della città del “presente estremo” – proprio quel limite su cui passeggiamo oggi, quando cambiare è, più che necessario, vitale. «L’architettura non può sicuramente guarire dal Covid, ma può migliorare l’ambiente in cui tutto questo accade e che non deve più accadere». La strada del miglioramento per Rota comincia dal ripensare il futuro della stessa disciplina e dei suoi professionisti. «Più che dell’architetto, dell’urbanista, del designer bisogna cominciare a parlare di “coloro che si occupano del luogo in cui viviamo”. Servono team multidisciplinari per risolvere il problema della circoscrizione dello spazio e definirlo nei minimi termini. I grandi studi di architettura dovranno associarsi per affrontare ampi pezzi di città e lo dovranno fare con la consapevolezza che al centro di qualsiasi progetto non c’è la “gente” in astratto, ma la somma di tutti gli individui con le loro diversità, ognuno alla ricerca di una serendipity adeguata». Un nuovo contratto sociale? «Sì, un contratto di convivenza che coinvolge anche il regno vegetale e gli altri esseri viventi. Solo così ci sarà un nuovo futuro per una terra divenuta sempre più piccola che dovrà essere sempre più redistribuita». 

Courtesy Italo Rota
Italo Rota

Rota usa una metafora molto forte per descrivere il viaggio dell’umanità nel tempo e nello spazio: «Da pianeta che era, il mondo si è così rimpicciolito da diventare la nave spaziale “Terra”. Come per una vera astronave non ci sono servizi a terra, né l’assistenza che fa manutenzione». È un viaggio con riserve limitate e poco spazio. «Un tempo si diceva che fosse il tempo; ma presto il bene più prezioso sarà il vuoto perché creerà la biodiversità a livello naturale e a livello umano, cioè la convivenza fra diversità». È qui che salta fuori il Rota assertore di un nuovo equilibrio. «Saranno le nuove tecnologie a consentirci di efficientare al massimo ciò che esiste, trovando magari delle soluzioni asimmetriche anche a scapito di smontare certe immagini che la storia ci ha lasciato». Infatti: come faremo con tutto il passato edificato che ci circonda? «È naturale che lo straordinario patrimonio di architettura che abbiamo rimane intangibile e va protetto, ma c’è molto che non serve più, e andrà demolito con sistematicità. Ridurre la materia che va smaltita è un modo per abbassare l’inquinamento: riciclare non basta. Bisogna poi pensare a gesti che abbiamo almeno due o tre effetti derivati. Per esempio, piantare alberi: mettono le radici, ombreggiando abbassano la temperatura del terreno e quindi l’inquinamento e al contempo delimitano parti di “vuoto”». Torniamo alle nostre città. Cosa accadrà? «Dovremo capire come andrà con il lavoro che è il tema più importante emerso da un anno a questa parte. Le persone torneranno a lavorare nelle loro sedi tradizionali? Perché ci andranno? Cosa faranno le aziende in questi luoghi? Quanti dei luoghi di lavoro che sono sparsi all’interno della città sopravviveranno così come li conosciamo? Le risposte che verranno avranno conseguenze incredibili all’esterno e all’interno di questi luoghi. Che accadrà di tutta la ristorazione che gravita intorno ai centri direzionali se solo il 20% degli impiegati tornerà a lavorare fisicamente? E degli spazi stessi degli edifici? Bisognerà ripensarli rapidamente trasferendovi per esempio molte funzioni che prima si svolgevano in modo limitrofo». Senza catastrofismi, ma c’è da temere che i centro città si vuoteranno ulteriormente? «Mi auguro al contrario che tutte quelle attività che oggi non producono più inquinamento, occupano poco spazio e lavorano a pieno ritmo – per esempio la farmaceutica – possano tornare a installarsi nel cuore delle città per ridare loro vita. Vanno trovate soluzioni per riportare le persone a lavorare nel sistema urbano e questo è possibile se l’architettura non parte più dalle funzioni, ma dalle attitudini degli individui. Attualizzando la questione posta da Harald Szeeman “when attitudes become form” oggi si potrebbe dire “quando faremo il catalogo delle nuove attitudini troveremo una nuova forma”. Ci vorrà del tempo. Intanto? «Come sempre la resilienza umana sta facendo il suo lavoro e in quanto tale produrrà soluzioni che non avremmo mai immaginato».