Addio a Jean-Paul Belmondo, irresistibile mascalzone
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Addio a Jean-Paul Belmondo, irresistibile mascalzone

di Simona Santoni

Aveva 88 anni. Naso schiacciato, sorriso sghembo, andatura scomposta, eppure così magnetico. È stato il sex symbol del cinema francese (e non solo) degli anni Sessanta e Settanta

Naso schiacciato, sorriso sghembo, andatura scomposta, eppure così irresistibile. Jean-Paul Belmondo è morto all’età di 88 anni, e la Francia piange uno dei suoi divi più amati.

Sex symbol degli anni Sessanta e Settanta, con quel viso irregolare e le labbra carnose, Belmondo è stato il brutto più affascinante del cinema francese, in continua rivalità con l’altra icona transalpina, il bellone dagli occhi di cielo Alain Delon. Belmondo aveva però confessato di essere stato sempre amico di Delon, oggi 85enne. «Ci hanno voluto mettere in competizione, invece siamo sempre andati d’accordo lui e io». Un po’ come sul film Borsalino del 1970, che li ha riuniti sul set come soci di criminalità nella malavita marsigliese, e sotto il copricapo iconico del cappellificio di Alessandria.

Suo padre scultore di origine italiana e sua madre pittrice gli ripetevano che era bello e bravo e lui ci ha creduto. Carismatico e scanzonato, disinvolto e un po’ mascalzone ma sempre sorridente, sprigionava un’assoluta sicurezza di sé. Del suo fare così sicuro rimase colpito anche Vittorio De Sica, che lo aveva diretto in uno dei suoi primi film, La ciociara (1960), nei panni di un giovane antifascista che si innamora di Sophia Loren. «Mi colpì soprattutto la sicurezza di sé» raccontò De Sica ricordando i momenti sul set. «Era capace di addormentarsi nel pieno di una scena madre. Dormiva per un po’, nessuno osava dire nulla, poi si svegliava e diceva “Stop! Perfetto!” ».

Belmondo diventa però Bébel, soprannome da divo stravagante e scanzonato, dopo Fino all’ultimo respiro (1960) di Jean-Luc Godard, che lo ha catapultato nel successo nei panni di un eroe “nero”, truffatore dagli istinti criminali. Opera prima di Godard, è considerato uno dei suoi capolavori e manifesto della Nouvelle Vague. 

Rispetto a Delon, di due anni più giovane, Belmondo aveva un’innata simpatia comunicativa, con quel suo naso da pugile fallito (che però sembra che non si sia guadagnato sul ring, ma da piccolo, dopo aver fatto a botte con i compagni di scuola). Con Delon si sono confrontati molto, a distanza, nel polar, il cinema poliziesco francese: eccolo in Asfalto che scotta di Claude Sautet (1960), Quello che spara per primo (1961) di Jean Becker, Quando torna l’inverno (1962) di Henri Verneuil.

Seppur Belmondo non fosse un grande amante del cinema impegnato, lavorò per tanti registi di alto calibro, per François Truffaut in La mia droga si chiama Julie (1969), per Jean-Pierre Melville in Léon Morin, prete (1961), Lo spione (1962) e Lo sciacallo (1963), per Louis Malle ne Il ladro di Parigi (1967), per Claude Lelouch in Un tipo che mi piace (1969), Una vita non basta (1988), I miserabili (1995), per Alain Resnais in Stavisky il grande truffatore (1974).

Nell’eterno conflitto Belmondo o Delon, la soluzione l’aveva trovata Édith Piaf: «Esco con Delon, ma torno a casa con Belmondo». Noi, stanotte, torniamo a casa con Bébel.

Jean-Paul Belmondo
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Jean-Paul Belmondo al Festival di Cannes, 25 maggio 1974