Alcide Pierantozzi: “L’amore è un peso che cade nel vuoto senza mai toccare il fondo”
Foto: Agne Raceviciute

Alcide Pierantozzi: “L’amore è un peso che cade nel vuoto senza mai toccare il fondo”

di Giacomo Alberto Vieri

Faccia a faccia con lo scrittore marchigiano sull’educazione sentimentale, le nuove generazioni e i (tanti) luoghi comuni nella letteratura. Per provare a scardinarli, una volta per tutte.

Dopo diversi anni da Ivan il terribile (Rizzoli), che raccolse grande consenso di critica e pubblico, Alcide Pierantozzi (1985) torna in libreria con L’inconveniente di essere amati (Bompiani): storia di Paride, cantautore “in fuga”, di luoghi, Milano, l’Abruzzo, di umanità, ricerca e sforzi.
Nel frattempo lo scrittore che esordì nel 2006 col potente Uno in diviso (Hacca) ha attraversato l’Italia a piedi pubblicando il reportage-memoir Tutte le strade portano a noi (Laterza), ha cominciato a riempire di parole le pagine di un quadernetto, ha trovato nomi, volti, luoghi e…

Alcide, che cosa definisce per te un romanzo di “formazione”? E quale senso ha, se ne ha, parlare di questo tema oggi?
Penso che la parola ‘formazione’ sia tra le più brutte del nostro vocabolario. Ovviamente è una parola vacua, che oggi non significa nulla, è un vecchio concetto borghese che era già vecchio negli anni Sessanta. Sul fronte della psicologia, che è anche il fronte della critica letteraria, si vuole vedere la “formazione” in un passaggio d’età compreso tra i 13 e i 20 anni, sulla scia degli stadi religiosi: la prima comunione, poi la cresima, poi il matrimonio… Ha del ridicolo, se ci pensi, e mi ha sempre infastidito vedere applicata questa etichetta all’Isola della Morante o al Giovane Holden. Quando avviene la formazione di Stefano Roi, il protagonista del Colombre di Buzzati? Forse nel giorno del suo dodicesimo compleanno? O a venticinque, quando rivede il mostro? La formazione avviene alla fine, quando lo squalo gli parla, ed è come se Buzzati ci dicesse: è troppo tardi. Ma i grandi scrittori (si pensi a Philip Roth) hanno sempre saputo che la vera formazione coincide con la morte.

Com’è nato questo romanzo? Parlo proprio di incipit, di prime righe. Dov’eri fisicamente, con chi eri e quanto tempo fa?
La prima scena che ho scritto è quella di Sonia che va in spiaggia con il bambino e rivede Manolo dopo anni. L’ho scritta a matita, come del resto tutto il libro, su un quadernetto del Libraccio. Poi sono passato ai fogli protocollo a righe con il margine ampio, ma verso la fine ho comprato un altro di questi quaderni perché il primo mi aveva portato fortuna (e anche perché se scrivo al bar, o in giro, mi è più comodo). Ero al parco Montanelli di Milano quando ho cominciato a scrivere le prime pagine e ogni tanto leggevo una frase a un mio amico che mi diceva: “bella”. L’incipit però è venuto molto dopo, quando avevo già scritto mezzo libro… una notte mi sono segnato un paio di righe senza sapere cosa ne avrei fatto, come spesso succede. Le ho ritrovate al momento giusto e ho capito che erano perfette per l’inizio.

Dove si fa, oggi, educazione sentimentale secondo te? E che peso ha l’amore nella vita di noialtri, te compreso?
L’amore può pesare un chilo, come una tonnellata, ma tanto è un peso che cade nel vuoto senza mai toccare il fondo. Non c’è fondo. Per questo non esistono educazioni sentimentali, come non esistono corsi di educazione alla follia.

Hai un luogo e un orario della scrittura?
Il luogo è il mio punto debole, perché se non trovo quello giusto non riesco a scrivere. D’estate scrivo bene al mare, ma d’inverno non so mai dove mettermi e a casa da qualche anno non riesco a combinare niente. Mi piacciono certi bar con il dehor, o i parchi, a volte mi piace scrivere a casa di amici mentre loro fanno altro. Le ore migliori sono sempre le prime del mattino, o dopo la palestra.

Che cosa ti interessava indagare maggiormente quando hai iniziato a pensare a “L’inconveniente di essere amati”?
Non volevo indagare niente, per carità: anzi, sono stato molto attento a evitare i sociologismi, anche durante le poche presentazioni. Ha fatto bene Mariarosa Mancuso che mentre registravamo un’intervista mi ha rimproverato: basta parlare di sociologia, parlami dei personaggi del libro! Ecco, volevo indagare questi personaggi, un paio soprattutto, e non certo per liberarmene. Mi piacerebbe scoprire chi ha inventato che ci si libera delle cose scrivendone. Nemmeno il dottore di Zeno avrebbe detto una bestialità simile. Quando le cose vengono scritte non fanno altro che ingigantire la fonte da cui sono state tratte. David Foster Wallace non si è mai liberato dal tennis, Burroughs non si è mai liberato dall’eroina e Simone Weil non si è mai liberata da Dio. Sono i libri a doversi liberare di chi li ha scritti, se sono validi.

Vai mai nelle scuole a presentare i libri? Cosa ti affascina di più della generazione dei ragazzi di oggi?
Vado poco nelle scuole e se ci vado non so mai come comportarmi. L’idea di mettermi a fare il simpaticone alle otto di mattina di fronte a un uditorio che su molti aspetti del mondo sa più cose di me mi imbarazza. Ed è difficile, ci vuole la faccia tosta: perché i ragazzi sono svegli, se non ti ascoltano è perché non gli stai dicendo niente di interessante o, molto peggio, perché hanno sgamato che sei fake. Di questa generazione mi affascina quello che anche mi spaventa, e cioè che vivano quasi tutti nel più totale sbaraglio: nessuna prospettiva futura, nessuna ricompensa dopo il sacrificio, nessuna gratificazione dopo una cosa fatta bene, nessuna paura per le droghe pesanti, nessuna possibilità di comunicare con i genitori… Pasolini parlava di tornare alla nuda terra per vedere cosa sarebbe sbocciato di nuovo. Questa, è la nuda terra.

Hai dei progetti per il futuro?
Ho un paio di progetti che avevo accantonato per scrivere questo libro. Vediamo… Spero tanto di trovare una nuova storia, provo a cercarla ogni giorno. Ma quando si cerca non si trova mai.