Artissima. Intervista a Ilaria Bonacossa: “Ci vuole un New Deal della cultura”
Foto: Silvia Pastore / Artissima

Artissima. Intervista a Ilaria Bonacossa: “Ci vuole un New Deal della cultura”

di Luca Zuccala

Gallerie e musei chiusi, fiere che abbracciano formati ibridi e digitali. E un intero settore che prova a resistere alle sferzate della pandemia. Ne abbiamo parlato con Ilaria Bonacossa, direttrice di Artissima.

Ci risiamo. Ondata pandemica atto secondo: Dpcm del Governo, chiusure, cultura nel cassetto e traslazione totale nel mondo digitale, ora un po’ meno “parallelo” e più calato dialetticamente nel contesto.

Musei, gallerie, fiere chiusi. Virtuale aperto. Lo scorso 7 novembre avrebbe dovuto inaugurare Artissima a Torino – la più importante fiera di arte contemporanea d’Italia, tra le più note al mondo – edizione ibrida e diffusa, ma nulla. O meglio, la parte digital (Artissima XYZ e Catalogo) rimane godibile a tutti online, la parte fisica (Unplugged, titolo Stasi Frenetica, fino al 9 gennaio 2021) – allestita come mostra nelle tre sedi elette (Palazzo Madama, GAM, MAO) di Fondazione Torino Musei – è congelata a data da destinarsi, sperando in una finestra temporale a dicembre.

Icon ha avuto la fortuna di visitare in anteprima le mostre in compagnia di Ilaria Bonacossa, direttrice della manifestazione da quattro anni e artefice delle varie iniziative, testimoniando e constatando in prima persona il lavoro realizzato in questi mesi. Orchestrare con intelligenza e ingegno una macchina complicatissima in un periodo di indefinitezza totale. Che significa conciliare le esigenze di tutti (dagli sponsor alle gallerie e alle sedi museali), e tradurre questi “stimoli” trasversali in un progetto interdisciplinare di ampio respiro sviluppato su più livelli. Un unicum per le fiere d’arte, composto oltre che dalla triplice mostra e dalle esperienze transmediali prima citate, dal progetto fotografico Folle in collaborazione con Intesa San Paolo, nuovo partner della rassegna, preludio all’apertura della nuova sede di Gallerie d’Italia in città a Palazzo Turinetti. Il risultato è oggettivamente di altissima qualità, e il solo fatto che la piattaforma online non annoia merita un plauso generale.

Cultura di nuovo in lockdown. E ora?
Il prossimo anno potrebbe essere un bagno di sangue. Le gallerie che hanno cercato di non licenziare, se davvero niente si muoverà, non potranno continuare a tenere personale. I musei stanno rimettendo tutti in cassa integrazione perché chiusi fino a data da destinare e gli sponsor… sono poche le aziende che in questo momento vanno bene, anche a livello formale è difficile giustificare un investimento in cultura se fai dei licenziamenti o hai personale in cassa. Andiamo incontro ad un momento in cui l’intera sostenibilità del sistema è veramente messa in discussione. Non so cosa ne sarà se non c’è un supporto veloce alla filiera.

Di cosa c’è bisogno subito?
Supporto dalle istituzioni. In Germania sono riusciti a fare già da luglio l’Iva al 10 per cento su tutte le vendite di arte. Può sembrare un sostegno solo alla parte commerciale, ma quella parte tiene in piedi tutta la filiera. Farebbe lavorare chi produce, chi espone, chi scrive, i giornali con le pubblicità, e così via.

Ci vorrebbero visione, scommessa, lungimiranza…
Ci vorrebbe un New Deal della cultura. Parlo di quello che conosco che è il settore artistico, se ci fosse un imponente finanziamento ai musei per comprare arte, non necessariamente italiana, ma dalle gallerie italiane non sarebbe un finanziamento a perdere, queste opere entrerebbero a fare parte di collezioni, sarebbero patrimonio comune. Si metterebbe in giro un’energia finanziaria che permetterebbe a tutto il sistema di stare in piedi.

Per ora si prova a sopperire col digitale, un palliativo forse ma necessario.
La rivoluzione digitale è l’unica cosa positiva avvenuta in questi mesi, arrivando anche fin dove non c’era. Fino a pochi anni fa era obbligatorio fare cene, investire in pubbliche relazioni e tutto il resto, ora è necessario avere delle piattaforme digitali che ti permettono di incontrare il pubblico.

Cosa significa fare una fiera d’arte in questo momento?
Continuare a reinventare la fiera provando a immaginare dei modelli sia di sostenibilità economica sia di sicurezza, che possano soddisfare le esigenze delle gallerie, dei clienti, dei partner.

Risultato: come si struttura Artissima quest’anno?
In tre parti: le sezioni curate all’interno del progetto multimediale Artissima XYZ; il Catalogo digitale dove puoi vedere tutto quello che le gallerie avrebbero portato in fiera; e Unplugged composta dalle mostre diffuse nelle sedi della Fondazione Torino Musei, curata da me assieme alle gallerie.

Direi più che riuscito l’assemblaggio delle mostre con le gallerie. Un dialogo, un compromesso costruttivo che ha permesso di rispettare gli “interessi” di entrambe le parti.
È stato un lavoro “di montaggio” su un tema, la Stasi frenetica, dove il rispetto dei lavori è stato al centro del progetto. Non ti nego che all’inizio questo “compromesso” mi ha messo in difficoltà, c’erano opere che non erano necessariamente nelle mie corde o nel mio gusto. Ma la fiera stessa non deve rispecchiare un gusto unico, anzi, Artissima come si vede nel Comitato di selezione è forte perché ha energie diverse. Mi sono resa conto, allestendo, che la forza della mostra poteva risiedere proprio in questa energia, negli sguardi di così tante persone, galleristi, di livello.

Lo sguardo consapevole e multiforme che compone Stasi frenetica, di cosa si tratta?
La Stasi frenetica è legata al senso di alienazione dell’accelerazione contemporanea. L’idea che l’uomo di oggi, staccato dal proprio corpo, vive sempre più accelerato e con sempre meno tempo. Una corretta metafora di come noi viviamo. Anche in questi giorni, nel momento in cui montavamo la mostra, non sapevamo se e quando aprire e chiudere. Questa frenesia che tutto fosse pronto per poi essere congelato è stata quasi perfetta.

Come si inseriscono la fruizione e la dimensione dell’arte in questa Stasi?
Ci siamo accorti che dell’arte abbiamo bisogno. Il lockdown lo ha ampiamente dimostrato, i musei sono spazi fuori dalla società del consumo dove tu puoi pensare e guardare senza necessariamente avere la pulsione a comprare. Sono luoghi che aiutano a pensare, a formare una società più intelligente, più consapevole, più aperta alla diversità e alla trasformazione. Uno strumento sociale fondamentale.