Sette domande a Vincenzo de Bellis, nell’epilogo di un quadriennio di direzione di miart

Sono stati quattro anni in cui la fiera internazionale di arte moderna e contemporanea a Milano, miart, ha letteralmente cambiato faccia, assumendo quella del suo direttore under 40, Vincenzo de Bellis.

Il curatore di origine barese da qualche giorno rientra nella lista delle migliori esportazioni made in Italy. Chiusi i battenti della fiera, de Bellis partirà infatti per il Walker Art Center di Minneapolis, che pare figuri addirittura nella top 5 dei centri espositivi statunitensi, a svolgere il ruolo di curatore per le arti visive. In questo tempo passato a ridare lustro a una fiera allora asfittica e marginale, ha lavorato sul delicato equilibrio tra storia e presente che caratterizza la cultura del luogo in cui ha sede, indirizzando le gallerie attraverso percorsi curatoriali. Lo abbiamo intervistato in sette domande.

Quattro anni definiti dal successo crescente della fiera. Quale il segreto? Credo che il punto di forza sia la città di Milano. Ho sempre pensato che per fare qualcosa in un luogo che non sia Basilea, devi trovare un’identità. E l’identità risiede nel caso specifico nelle caratteristiche fondanti di questa città: l’attitudine al bello (è la città della moda e del design, perché non dell’arte allora?) E poi, cosa caratterizza Milano nel mondo? La modernità, intesa come attitudine modernista, una tensione al futuro guardando al passato. E in questo confronto costante abbiamo trovato la nostra cifra distintiva.

I numeri ora. Quanto è cresciuta la fiera? Lo spazio espositivo è passata da 3000 a 8500 metri. E da meno di 100 gallerie, ne contiamo quest’anno 154. Non è un’equazione, ma ovviamente la concorrenza è a livello internazionale, oggi in contemporanea a noi inaugura anche San Paolo.

Cosa significa qualità quando si parla di una fiera? Checché se ne dica, le fiere sono fatte dalle gallerie e il livello delle gallerie determina la qualità della fiera, ma non è tutto. Occorre che queste portino i loro lavori migliori (i cosiddetti primary works) e i progetti curati tendono a incentivare una miglior selezione.

Cinque gallerie che l’hanno sorpresa in questa edizone di miart. Clearing di Bruxelles, con uno stand dedicato interamente a Eduardo Paolozzi. L’accoppiata di ThenNow tra Galleria dello Scudo e Campoli Presti. Molto coraggioso il solo show di Massimo De Carlo con Matthew Monahan, così come quello di Greene Naftali con Gedi Sibony. Nel moderno, penso che Cardi abbia uno stand molto bello.

Come inizia la sua passione per l’arte? Al liceo, con la mia prima interrogazione sui vasi etruschi. Presi un voto altissimo. La professoressa s’innamorò di me e io m’innamorai della materia.

Cosa porta in valigia al Walker Art Center di Minneapolis dove va ora? Intanto un sorriso enorme. Non perché sia felice di andarmene, ma perché è un posto meraviglioso ed è un onore per me entrare a far parte di quella storia. Ci vado anche con un background di complessità di lavoro tale da farmi sentire con le spalle abbastanza larghe per trattare una bella bestia come quella.

Che cosa le mancherà dell’eprienza di miart? Vado a fare un lavoro più riflessivo, un lavoro con gli artisti per cui ho sempre studiato e non potrei chiedere di meglio. Ma penso che mi mancherà l’adrenalina di un evento dalle numerose sfaccettature come miart. E poi di certo mi mancheranno le persone con cui ho costruito questo progetto. Io sono il più visibile, ma è un lavoro fatto da tante mani e tanti scambi d’idee dentro e fuori la fiera.

miart

Fiera Milano City

viale Scarampo, gate 5

Milano

8-10 aprile