Diavolo tra i “Diavoli”: Alessandro Borghi si racconta ad ICON
Courtesy of Sky

Diavolo tra i “Diavoli”: Alessandro Borghi si racconta ad ICON

di Andrea Giordano

L’attore romano è protagonista, insieme a Patrick Dempsey, della seconda stagione di “Diavoli”

Tra Inferno e Paradiso preferisce di gran lunga «stare nel mezzo». Anche se ora torna a essere un perfetto Diavolo. Alessandro Borghi scala nuovamente il mondo (e il dietro le quinte) della finanza, diventando forse ancora più cinico, machiavellico e spregiudicato. Succede nella serie Diavoli, tratto dal romanzo di Guido Maria Brera (in onda dal 22 aprile su Sky Atlantic e in streaming su NOW), che dopo il successo della prima stagione, riproietta in un sistema ulteriormente affascinante e contemporaneo, il tutto sullo sfondo della Pandemia. ‘Una vera saga’, la definiscono gli autori (unica in Italia nel genere financial thriller, e già al lavoro per un terzo capitolo seriale), chiamata a incrociare pubblico e privato, bene e male, ma soprattutto l’universo dei dati, capaci di condizionare le nostre vite, di scandire temi sociali e passioni, drammi e omicidi da crime serrato. E tanto potere, controllo. Qui, il Borghi-Massimo Ruggero, nuovo CEO della New York-London Investment Bank, combatte allora la propria guerra, ritrovando l’ex (o forse lo sarà ancora) mentore, Dominic Morgan (interpretato da Patrick Dempsey), pronto a tutto. L’occasione per rivedere l’attore romano recitare in inglese, confermando così un personaggio che di fatto si aggiunge alla sua personale galleria di volti. Oltre dieci anni (intensi) di carriera, nei quali da Suburra a oggi non ha sbagliato mai. L’occasione per ripercorrere insieme a lui vita privata e professionale, il suo essere riflessivo, profondo e contemporaneo, e ovviamente riguardando gli altri protagonisti affrontati, a partire da Stefano Cucchi: il ruolo della svolta, non solo grazie ai premi ricevuti, ma per quella forza che non smette di avvolgerlo.

Nel guardare Diavoli nasce una riflessione: fino a che punto i limiti (pure morali) possono essere portati all’estremo per conquistare qualcosa?

Ho sempre pensato, da un certo punto in poi del mio percorso artistico, che non fosse interessante raccontare dei personaggi che fossero o soltanto buoni, o solo cattivi. Ti rispondo così perché è l’idea che mi sono fatto di questo lavoro, poi capiterà in futuro che mi venga richiesto di fare un villain Marvel, e basta. Invece ci sono una serie di sfumature riguardanti gli esseri umani che andiamo ad interpretare, che hanno molto a che fare con ciò. Con la morale, l’etica, con dei momenti bui, piuttosto che luminosi. Massimo lo troviamo più cinico, si è trasformato. Andare su e giù, scavando nelle sue profondità, è un doversi confrontare con se stesso, anche quando è solo, ma alla base di una buona narrazione ci deve essere sempre un’interrogazione rispetto alla propria coscienza, all’approccio alle proprie cose.

L’anno scorso sembrava avesse qualche timore nel recitare in inglese, invece tutto superato.

Non sono ansioso, ho proprio paura è diverso. Non la vivo, accetto semmai di avere paura, la confronto in una maniera quasi bambinesca, chiedendomi cosa posso fare per farmela passare, e alla fine niente agisco, faccio. Una parte del mio essere si convince di essere bravo da solo, mi pagano, però di base io mi sento sempre a disagio, non all’altezza di fare una cosa. Questa cosa parte da bambino, credo sia il mio modo di spingermi sempre oltre. Porto l’esempio riguardo l’esperienza da padrino alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia nel 2017. Fino a quando ti chiedono di fare attore, sei consapevole di potertela cavare in qualche modo, è il mio mestiere, ma se vado fuori dalla cosidetta zona confort, è lì che mi cago sotto. Dico, “stavolta è finita, capiranno che sono un cialtrone, mi cacceranno”. Ci voleva, stavo continuamente a ragionare, a cosa devo dire, a come comportarmi. Fui felice, seppur mi dimenticai il nome di un giurato.

Con Patrick Dempsey siete ormai amici.

Mi ha accolto nella sua vita in una maniera elegante e vera, ci nutriamo dell’affetto reciproco e di visioni.

Ha ancora il mito americano?

Da tre anni mi è crollato, sto bene dove sto. Ma se dovessi scegliere non andrei a Los Angeles, semmai a Bali.

Il suo personaggio è partito da zero, poi è arrivato in vetta. C’è qualcosa che l’accomuna a lui, non so un senso di rivalsa?

Più che rivalsa, la mia è stata voglia di scoperta. Sono sempre stato curioso di capire quali fossero i limiti che potevo avere, poi, andando avanti, quelli che credevo presenti, fin da adolescente, li ho invece superati 10 anni fa.

A cosa si riferisce?

Alla lingua, al poter vivere di questo mestiere, al confronto col mercato internazionale, o coi grandi brand, tipo Gucci, sedendomi allo stesso tavolo con gente che mai avrei immaginato. Credo che ognuno di noi debba avere un po’ di talento, dopodiché questo vale il 20%: la vera fortuna è stata incontrare persone diverse, le stesse capaci di darmi possibilità, di essere ascoltato, di dire delle cose. Sarei potuto diventare bravo a recitare, ma nel salone di casa mia: il merito è nostro, c’è una buona percentuale che va attribuita ad altri.

Massimo fa boxe, è uno sfogo fisico: lei ha cominciato a tirare in palestra, fu scoperto lì. Che ricordi ha?

Il pugilato è lo sport che seguo e che mi sarebbe piaciuto praticare se non avessi dovuto usare la faccia nel lavoro. Preferisco il sacco di casa, ma ci penso spesso, è qualcosa di radicato nelle mie origini semplici: ero il ragazzo che studiava economia e commercio, e che poi un giorno venne fermato là fuori. Il resto come detto è successo.

Nella serie il ruolo delle donne diventa ancora più importante. Nella sua quanto lo è?

Irene è una donna estremamente d’ispirazione, intelligente e strutturata, spinge sempre a portarmi ad un altro livello, mi costringe ad avere a che fare con me, ed in maniera profonda, se provo a essere soltanto superficiale, non mi molla. Dialoghiamo per ore, è una cosa estremamente sfidante. È il fatto di sapere che non ci sarà mai una giornata semplice in cui puoi far finta, o dare per scontato un obiettivo: ci capiamo tanto, litighiamo in una maniera complessa. Bisogna essere pronti come se dovessi sostenere un’interrogazione. Nessuno è impegnativo come lei. Una dinamica che vale nella vita, come nella professione.

In che senso?

Ti fai delle convinzioni, pensi di essere qualcuno, hai delle idee, ma se non viene nessuno a dirti che magari erano delle ‘stronzate’, ti devi mettere seduto e saper ricostruire. Perché è lì la crescita. È la stessa sensazione di quando ho conosciuto per la prima volta Claudio Caligari (il regista di Non essere cattivo, ndr) e mi disse “Ragazzino tu pensi che ti piace il cinema? Ma non l’hai visto mai, neanche un film”. Tutto deve essere rimodulato.

Dove sta l’errore allora?

Nel credere di avere la verità in tasca.

Con Sulla mia pelle è stato però un incredibile Stefano Cucchi. Un ruolo di svolta, oltre lo schermo e nell’attualità. Lo credeva possibile?

Il cinema ha un potere sovrannaturale. Quello che è successo col film non era preventivato, figuriamoci ora con le ultime notizie emerse. È la dimostrazione di come sia uno strumento empatico per eccellenza. Io ti posso raccontare una storia per 20 anni, se ti metto nella condizione di immedesimarti in quella cosa, allora il nostro corpo reagisce in una maniera diversa. Spero che ne facciamo molti così, forse io dovrò aspettare, se no sembra che voglia appropriarmi della vita di altri. C’è una grande costruzione dietro comunque, di comunicazione,di racconto della verità e di ricerca di una giustizia, parola che io non amo, quanto meno di rivalsa, sì, di una famiglia che ha perso una persona.

Ad un certo punto, sembrava ci fosse pure un progetto su Giulio Regeni.

Per un periodo abbiamo provato a capire se c’erano le condizioni di realizzarlo, poi per vari motivi non siamo andati avanti. Era una condizione più complicata, un caso aperto, c’era in ogni caso una necessità. Ci siamo detti, se riuscissimo a farlo, per metà potremmo muovere qualcosa: io avevo voglia di farlo, ne parlai insieme a professionisti, persone, le quali vivono il cinema così.

Alcune storie devono smuovere.

In questi giorni sto leggendo un libro, Noi due siamo uno, riguardo un ragazzo morto dopo un Tso, Andrea Soldi. Vedi, non deve essere per forza un film di denuncia, racconta semmai certi tipi di umanità, l’importanza di considerare gli esseri umani. Nel nostro paese, fuori, hai sempre delle etichette, sia che tu sia immigrato, un drogato. Noi intraprendiamo certi progetti, ma lo facciamo per abolire questa cosa, perché ognuno ha una chance per dimostrare chi è. Sta poi a loro, a noi, riuscire a creare una base di partenza, appellandoci all’educazione, ad una certa sensibilità. C’è chi ci riesce, chi no. Ma quando torni a casa sei tu a guardarti allo specchio e senza scappatoie.

A sentirla non sembra proprio un Diavolo..

Penso di essere un gran figlio di.. (ride, ndr). La mia più grande preoccupazione è stata di comportarmi educatamente, i miei genitori me l’hanno insegnata. A volte ci sono riuscito, altre meno. Alla fine non mi interessa troppo andare in Paradiso, ma neanche l’Inferno: sto nel mezzo, e cerco di mantenermi lì.