Festival di Sanremo 2020: l’edizione numero 70 che oltrepassa le barriere

Festival di Sanremo 2020: l’edizione numero 70 che oltrepassa le barriere

di Andrea Tenerani, Annalisa Testa

Il vincitore del Festival di Sanremo è la musica italiana. Con 10 milioni di spettatori e un picco di share al 54.4% l’edizione numero 70 riprende consapevolezza di sé, dei suoi talenti, della sua internazionalità.

Il re non è ancora stato incoronato. Ma a poche ore dall’inizio dell’ultima battaglia sanremese, il vincitore è davanti agli occhi di tutti i 9,835 milioni di spettatori che in queste quattro serate si sono sintonizzati sulla mitica Rai. Il vincitore del Festival di Sanremo 2020 è il Festival di Sanremo stesso. Espressione di una nuova Italia musicale che comincia a manifestare un velo di consapevolezza del proprio potenziale.

E da qui, si riparte. Il Festival ha dato prova di carattere tornando ad investire su di sé, sui propri talenti, nuovo quello del vicnictore dei giovani, Leo Gassman, portavoce di una nuova generazione. Per la prima volta esce da quella comfort zone prevedibile e rassicurante, si espande come un Big Bang oltre i confini della libertà di espressione abbattendo quelle barriere di una comunicazione scontata e posticcia. I suoi frammenti si infilano dentro i social network, incendiandoli (34,5 milioni di interazioni, con 1,8 milioni di post di 139.600 autori diversi). Le sue schegge infiammano un pubblico che prima non c’era. Giovani che si nascondono dietro uno smartphone, ma che ora, decisamente, ci sono. E guardano. Commentano, condividono, inveiscono, si schierano. E ancora: si ispirano.

Uno scontro generazionale che si dà battaglia sul palco dell’Ariston. Luogo in cui in cinque giorni si concentrano dati che tornerebbero utili a studiosi di antropologia e sociologia, psicologia, costume, e perché no, anche di politica, con il fine di stilare libri universitari su cui laurearsi in “scienze italiane”. Una fenomenologia complessa da definire. Ma “That’s Italia”, dice la stampa internazionale (in sala stampa si contano 81 inviati per 48 testate, mai così tanti in 70 anni). 

È il sacro Festival che riemerge dalle sue stesse ceneri. Che si fa forte di quegli inni nazionali che sono nati su questo palco per poi dirigersi in mare aperto, verso l’internazionalità. Verso una modernità, che forse preferiamo chiamarla contemporaneità, che è impossibile non vedere.

Merito anche (forse) del direttore artistico che, come la Nancy Pelosi con il mano il Discorso sullo stato dell’Unione al Congresso di Trump, ha stracciato le linee guida di una Festival tradizionale arruolando nel suo esercito un cast degno di rivoluzione. Rivoluzione della canzone italiana che non ha bisogno di Big (nome affidato ai grandi ospiti da Pippo Baudo decenni fa) per far parlare di sé. Perché le parole intonate oltrepassano i codici classici delle canzonette, si fanno sentire, e anche vedere.

Di amore, naturalmente si parla, ma della sua versione tossica e velenosa che si nasconde sotto il mantello nero di un Achille Lauro che distrugge gli stereotipi interpretando prima San Francesco d’Assisi, poi Ziggy Stardust, alter ego di David Bowie, poi ancora la Marchesa Luisa Casati Stampa e stasera… chissà. È lui il paziente zero dei nuovi performer musicali, ricordiamocelo. Perché negli anni a venire ce ne saranno molti altri su questo palco. Dove aleggia ancora l’ombra di Mahmood, anche se non c’è, che vive tra le parole della bella Andromeda, figura mitologica incatenata agli scogli per la troppa bellezza, cantata da una elegante e posata Elodie che si fa portavoce di una amore grande, ma ancora immaturo.

L’assenza di amore tormenta Diodato, tra i favoriti fino a ieri sera. Una mancanza che crea un silenzio insopportabile. Ma il rumore si fa strada sul palco vestito di nero e di oro. È Rita Pavone a cui si dovrebbero dedicare più di due righe per decantare e osannare una donna che con la sua grinta ha fatto venire i brividi (di paura) anche a distanza. Chapeau.