

L’arte sensuale di Hannah Levy
Le sue opere sono attraenti, quasi sensuali, forse perché Hannah Levy, pur molto giovane, è una delle rare artiste che ancora crea con le sue mani: un approccio che richiede tempo
Ho visto il lavoro di Hannah Levy (1991) molti anni prima di conoscerla di persona. Era il 2016, e l’opera davanti alla quale mi trovavo è rimasta impressa nella mia memoria per un motivo preciso: il desiderio di toccarla, di far interagire il mio corpo con quella scultura. Era una sorta di seduta modernista in metallo tubolare che teneva in tensione un costume da bagno in lattice rosa carne, portando la tensione del materiale elastico al limite massimo. La contraddizione tra il metallo, rigido e freddo, e il lattice, morbido e sensuale, rendeva l’opera incredibilmente attraente, quasi sexy. Uno dei talenti di Hannah Levy è questo: saper innescare un desiderio, una perversione feticista in chi guarda le sue opere. «È difficile dire quale sia la mostra che ha cambiato la mia carriera e ha portato più attenzione al mio lavoro», mi racconta, «perché nel mio caso non è andata così, e sono felice che sia stata una progressione lenta».

Ci sono artiste e artisti che raggiungono il successo attraverso una sola mostra nel posto giusto al momento giusto. La storia di Levy è diversa per una ragione particolare: ogni elemento delle sculture, ogni tubo di metallo piegato e ogni lembo di silicone è fatto in prima persona da lei. «Mi sono sempre spinta al limite di quello che riuscivo a fare fisicamente. L’asticella è sempre più alta, a ogni mostra la vedo salire. È divertente, ma è per forza di cose una crescita piuttosto lenta. Non avrei saputo fare altrimenti».

Artigli, asparagi giganti e molli sorretti da uncini, zucche gibbose come la pelle di un rospo appese a gabbie di metallo che ricordano dei lampadari: nel tempo Hannah Levy è stata capace di creare un proprio linguaggio, che non smette di rinnovare. Grazie alle capacità tecniche acquisite in dieci anni di esperienza, le sue opere oggi sfidano le proprietà fisiche dell’acciaio inossidabile e lo trasformano in morbide forme organiche attraverso un estenuante processo di piegatura e lucidatura.
L’ispirazione per una nuova svolta tecnica è arrivata dall’incontro con il lavoro di Hector Guimard, architetto dell’Art nouveau che disegnò le stazioni della metropolitana di Parigi all’inizio del Novecento. «Una delle cose che trovo più interessanti è il suo approccio alle ringhiere in ferro. Invece di fare i pezzi unici per i suoi progetti aveva collaborato con una fonderia e creato un catalogo di componenti prodotti su scala industriale» da assemblare in modi sempre diversi: un metodo simile a quello con cui l’artista produce oggi i componenti per le sue opere, attraverso macchine a controllo numerico.

«Una volta, a scuola, un professore mi disse che continuavo a fare la stessa cosa. Io gli risposi che non era così, che stavo creando un linguaggio e lo stavo portando avanti, modificandolo lentamente. Ma capisco che, se mi hai osservato a scuola per un anno, sia difficile notare quei cambiamenti. Il modo in cui la visibilità del mio lavoro è cresciuta piano, mettendo in fila un passo dopo l’altro, è anche come mi sento rispetto al mio modo di fare arte». In fondo è quasi impossibile essere testimoni oculari del momento esatto in cui un fiore sboccia. Il talento è così: un lento ma inesorabile processo di crescita.