Le parole per ricordare Wilder che (forse) avrebbero strappato un sorriso a Wilder. Tra cinema e narrativa

Calma, dignità e classe. Quella che il maestro di scherma e attore dilettante Jerome Silberman dimostra di avere in pedana con i suoi allievi e sul palcoscenico di qualche teatro off Broadway nonostante quel suo aspetto un po’ eccentrico, quei capelli per aria e quegli occhi sgranati, sognanti. È appena tornato negli Stati Uniti dopo aver trascorso la giovinezza in Inghilterra, passando dalla Bristol Old Vic Theatre School all’Actors Studio sulla 44ˆ.

I ricordi si confondono, le immagini si fanno vaghe. Tiene duro. Riconosce ancora i suoi cari, fa di tutto per aggrapparsi ai loro volti, ma la malattia è una brutta bestia. Una malattia di cui non ha detto niente al suo pubblico, sopratutto quello dei più piccoli. Già, perché tra i ghiacci della memoria che vanno sciogliendosi c’è n’è anche uno in cui solca fiumi di cioccolata e vola in ascensori di cristallo e il suo nome è sulle confezioni dei dolci migliori del pianeta. Ha ottantatré anni, sa che è il momento di uscire di scena e non può fare a meno di fare qualcosa di difficile per chi soffre del suo stesso male: due conti.

È nato nel ’33, l’anno in cui Hitler è salito al potere. Ed eccolo lì, Hitler, sulle scene di un musical tanto surreale quanto irrisorio. E lui è in platea e spera che sia un fiasco, perché, perché… Perché non se lo ricorda, forse per la sua origine ebraica? Eppure il suo nome è tedesco e mette i brividi. Ma è una questione di pronuncia, solo di pronuncia: si dice Frankenstin. Eppure il destino è quel che è, non c’è scampo, e si ritrova nei panni di un rabbino nel Far West accanto a Ian Solo, cazzarola.

E poi di nuovo, avanti e indietro nel tempo. Altri nomi, altri luoghi, altri amici. Si ricorda di Richard Pryor, caro, vecchio, problematico Richard. Lui era il sordo. O era il cieco? Rammenta anche che in molti hanno bussato alla sua porta con copioni spazzatura, pieni di volgarità e parolacce, e rammenta di aver loro offerto un caffè e di averli rispediti con garbo a Hollywood.

Quella roba non faceva per lui, meglio scrivere due romanzi d’amore, sobri, eleganti e arguti, meglio rileggere Čechov, meglio dedicarsi ad aiutare la ricerca contro il cancro che si è portato via sua moglie, recitare ogni tanto in una simpatica serie TV e dalla finestra di casa sua in Connecticut guardare il mare.

Infine, si ricorda anche che Jerome Silberman ha cambiato nome ai tempi di Broadway, quando ha conosciuto quell’altro adorabile squinternato di Mel Brooks e il suo nome, oggi, ancora e per sempre, è Gene Wilder.

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I titoli di Gene Wilder in italiano (tutti editi da Sagoma):

La mia puttana francese. Una delicata storia d’amore. Il suo primo libro, è una spy story spumeggiante che si svolge nel 1918 tra due eserciti che si fronteggiano e una donna piena di fascino.

Io, Clara e Čechov. Storia di terme in Germania, un violinista, una scontrosa ragazza belga e un mito come Čechov.
Che cos’è questa cosa chiamata amore? Dedicato a chi non smette di cercare il vero amore o a chi lo ha trovato, una collezione di ritratti di corteggiatori spietate, donne fatali, errori colossali e timidi innamorati.
Come lo feci. Autobiografia di un mostro (di bravura).
Baciami come uno sconosciuto. La mia ricerca dell’amore e dell’arte.