Giovanni Ortoleva: “È ora di parlare del ruolo del teatro nella società”
Foto: Giulia Lenzi

Giovanni Ortoleva: “È ora di parlare del ruolo del teatro nella società”

di Valentina Lonati

Tra i registi più brillanti della sua generazione, Giovanni Ortoleva porta alla Biennale Teatro di Venezia, in scena fino al 24 settembre, un testo di Fassbinder che punta a far riflettere sulla rappresentazione teatrale – e non – delle minoranze. Lo abbiamo intervistato per parlare del teatro di oggi, e di quanto, in fondo, ci sia ancora bisogno del pensiero di Fassbinder.

Nel buio che ammanta il teatro post-Covid, ieri, lunedì 14 settembre, si è accesa la Biennale Teatro di Venezia, appuntamento che quest’anno si annuncia diverso – come richiede il contesto – ma soprattutto coraggioso. Non solo per il tema scelto dal direttore artistico Antonio Latella – quello della censura – ma anche per averlo affidato solo ad artisti italiani. E per di più, ad artisti italiani emergenti. Tra loro c’è il regista Giovanni Ortoleva, classe 1991, che dopo il successo di due anni fa con Saul, presentato sempre in Biennale, torna a Venezia con I rifiuti, la città e la morte di Reiner Werner Fassbinder, in programma il 21 settembre.

Un’opera controversa, quella di Fassbinder, la cui rappresentazione scenica fu impedita dal 1975 fino al 2009 perché accusata di antisemitismo, diventando così un caso di censura quasi senza eguali nel secondo Novecento. La storia è quella della prostituta Roma B. e del suo incontro con A., uno speculatore immobiliare ebreo che tutti detestano ma al contempo rispettano. Un personaggio che Fassbinder tratteggiava a tutto tondo, rivelandone anche i tratti negativi, e scatenando così le accuse di antisemitismo. Ortoleva parte dalle parole con cui Fassbinder difendeva il testo – “Che [è] al contrario antisemita parlare degli ebrei e di altre minoranze esclusivamente in termini positivi, solo perché si tratta di minoranze” – per portare in scena un manifesto contro l’ipocrisia, contro i tabù, contro ogni forma di discriminazione e superficialità di pensiero. Lo spettacolo è prodotto dal Teatro della Tosse di Genova, che da sempre supporta attivamente il lavoro di giovani artisti e registi.

Perché questo testo?
Dopo aver presentato Saul alla scorsa Biennale, Antonio Latella mi ha chiesto di lavorare a un altro spettacolo, questa volta sul tema della censura. Sono un grande fan di Fassbinder, era una voce fuori dal coro. Ho scelto I rifiuti, la città e la morte perché è stato uno dei testi più censurati del Novecento, un testo letto in modo superficiale, che in realtà voleva stimolare una riflessione sul nuovo antisemitismo. Anche parlare di una minoranza soltanto in termini positivi è discriminatorio. Lui portò in scena un ebreo in modo tridimensionale, umano. Questo non venne accettato.

Perché è importante, secondo te, riparlarne oggi?
C’è un grande problema, oggigiorno, nella rappresentazione delle minoranze. Si rappresentano in modo bidimensionale, quasi esclusivamente in termini positivi. Il messaggio di Fassbinder è caduto nel vuoto. Gli appartenenti a una minoranza sono sempre eroi, mai umani. Per comunicare questa disumanizzazione ho deciso di ambientare il testo sulla luna, in un mondo freddo distante, dove si tiene una grande sfilata di moda. Insieme a Marta Solari, costumista qui al Teatro della Tosse, abbiamo fatto un enorme lavoro su come vestire questi personaggi. Fassbinder parlava in modo molto libero anche di un altro grande tabù: i soldi. I soldi sono il grande oggetto censurato della nostra epoca. Parliamo costantemente di soldi, ma in uno spettacolo non si nominano mai. È un oggetto rimosso, un oggetto sporco. Amo Fassbinder perché ne parla chiaramente. È liberatorio poterne parlare.

In Saul, invece, parlavi di un altro grande tabù dei nostri tempi, il fallimento.
Saul è iniziato con una fascinazione per il personaggio biblico. Ma in realtà, il fallimento di cui parla Saul era la mia frustazione mentre affrontavo un momento di impasse nella scrittura. Raccontava della mia infelicità, della mia paura di non riuscire a essere un autore. Ho deciso di trasformare Saul in una rockstar, una meteora della musica in crisi per aver perso la notorietà, che racconta bene come intendiamo oggi il concetto di fallimento.

Nelle tue opere ricorre una certa critica alle basi su cui poggia la nostra società e all’ipercapitalismo.
Fassbinder diceva: “quello che non si può cambiare bisogna almeno provare a descriverlo”. Io provo a raccontare, a descrivere le dinamiche del capitalismo contemporaneo, come ho fatto in Oh little man, il mio primo monologo che cercava di entrare nel pensiero economico di oggi. Lo spettatore, poi, può trarre la conclusione che vuole.

La pandemia è stata un’occasione per ripensare la rappresentazione teatrale?
Ci sono molte cose che dovrebbero far ripensare la rappresentazione teatrale, non il Covid. Una cosa, però, ce l’ha fatta capire: il teatro è il fanalino di coda del settore culturale in Italia. È uscito dal discorso politico e non solo, anche dalla vita della gente comune. Quello che andrebbe fatto, ora, è parlare del ruolo del teatro nella società. Parlare del grande scollamento dalla società civile. Le riforme degli ultimi anni hanno reso molto complesso fare teatro, perché sono state realizzate da chi non conosce questo settore. Uno spettacolo diventa tale dopo 10, 15, 20 repliche. Ma il sistema di oggi rende molto difficile portare in tour un’opera. La scelta di Latella di dedicare questa Biennale all’Italia è come a voler dire: guardate qui cosa abbiamo, la varietà di artisti e di lavori incredibili che spesso rimangono inascoltati, senza un palco a dar loro voce. Non sarà una Biennale come le altre, e sono molto felice di essere parte di un nuovo discorso sul teatro, non dico di un movimento – o forse sì – di nuove registe e registi italiani.