

Il coraggio della gen z
Parisa Nazari, attivista iraniana, ci racconta cosa vuol dire essere donna a Teheran: la violenta e sistematica negazione dei diritti femminili che ha spinto i giovani a ribellarsi contro gli ayatollah. Rischiando la vita in nome della libertà
Sono passati quasi sei mesi da quando le strade di Teheran si sono riempite di giovani uniti da uno slogan insolitamente impetuoso e inscalfibile: «Donna. Vita. Libertà». È il trittico di rivendicazioni cantilenate nel Paese degli ayatollah dallo scorso 16 settembre, il giorno in cui la «polizia della moralità» – l’unità delle forze armate iraniane deputata a far rispettare la legge islamica voluta dal regime – ha ucciso in custodia la 22enne di origine curda Mahsa Amini, dopo averla arrestata perché il suo hijab non le copriva del tutto i capelli, come prescrive la normativa. Da allora, secondo i dati della ong statunitense Human Rights Activists News Agency, il regime ha ucciso più di 500 manifestanti e ne ha arrestati quasi 20mila, cercando di arginare una rivolta che però è riuscita a far parlare di sé in tutto il mondo. Un successo inedito, che testimonia un cambiamento epocale in Medio Oriente e una svolta nella direzione dei diritti di cui anche l’Occidente dovrebbe occuparsi.

Parisa Nazari, mediatrice culturale e attivista che è nata a Teheran e vive in Italia, dice che «quel che è successo a Mahsa Amini è accaduto alla maggioranza delle donne iraniane che conosco. È una sistematica violazione dei diritti femminili perpetrata tramite la “polizia della moralità”, nata per “rieducarle” a vestirsi in modo più consono a una certa interpretazione forzata della sharia: al di là della patina religiosa, si tratta di una forma di controllo esplicito del corpo delle donne». La sorte di Mahsa e delle altre vittime è orrenda, spiega Nazari: «Le donne arrestate vengono aggredite verbalmente – quando non fisicamente – e condotte in luoghi dove dovrebbe avvenire la presunta “rieducazione”, ma dove nei fatti si calpesta la loro dignità. Io ci sono stata: c’è un tribunale sommario che nella migliore delle ipotesi commina una multa, nella peggiore rovina una vita. Per anni tutte noi abbiamo vissuto nel terrore di esprimerci liberamente».
Secondo Nazari, «era scontato che questi metodi prima o poi avrebbero portato a un assassinio: anzi, non mi sorprenderebbe scoprire che ci sono state altre Mahsa Amini prima di Mahsa Amini, che hanno avuto l’unica fortuna di non rimetterci la pelle. Si potrebbe dire che quest’epilogo era nell’aria».

La novità dirompente delle manifestazioni esplose l’anno scorso è l’alleanza tra laici e religiosi, donne e uomini, genitori e figli; un’unione che ha scardinato paura e omertà: «Anche le donne che scelgono di portare il velo disapprovano questa legge, la punta dell’iceberg di tutte le leggi misogine che limitano le libertà femminile». C’è poi un importante elemento generazionale, spesso citato dalle cronache: perché a ribellarsi è stata proprio la generazione di Mahsa Amini? «La Gen Z ha superato ciò che per la mia era stato un forte tabù, cioè la protesta pubblica. Noi avevamo una doppia vita: fedeli al regime in pubblico, critici nel privato; potevamo parlare male dell’ayatollah nelle nostre case, ma non fuori. Loro invece vivono come se la Repubblica islamica non esistesse, anche se sanno di rischiare la vita: fanno ciò che fanno i loro coetanei nel resto del mondo, vivono sui social. Ma il merito è anche dei loro genitori, più coraggiosi dei nostri (che erano terrorizzati che potessimo essere arrestati o uccisi) e del coraggio delle madri e delle donne in generale, le prime vittime del regime, che hanno insegnato ai figli a ribellarsi. Oltre che una questione generazionale, c’è quella della complicità inter-generazionale».

Difficile giudicare da qui: cosa sbaglia l’Occidente nell’analisi dei fatti di Teheran? «C’è chi riconduce tutto a una questione economica, legata all’accordo sul nucleare mandato in fumo da Donald Trump, che era anche il cavallo di battaglia dell’ex presidente Hassan Rouhani, un conservatore moderato. In realtà il pomo della discordia, oggi, è un altro: il popolo vuole che la dignità della donna e delle minoranze venga rispettata. È questo il fulcro delle proteste: la gente non si sta rivoltando perché non ha il pane, ma perché non ha la libertà». In più, restando all’interno dei confini di casa nostra, secondo Nazari il tempo trascorso prima che il governo italiano prendesse posizione è stato «motivo di sofferenza»: ci vuole uno «sforzo congiunto della sinistra e della destra europee per isolare il terrorismo di Stato della Repubblica islamica» (cioè l’opposto di quanto avvenuto nel 2019, quando nel silenzio della comunità internazionale l’Iran «bloccava internet e uccideva un numero imprecisato di manifestanti pacifici»). Ma per metterlo in campo la diplomazia globale deve attivarsi, e il mondo del capitale astenersi dal firmare contratti milionari col regime.
Parisa Nazari preferisce non sbilanciarsi sull’esito dell’insurrezione: ne ha viste tante, d’altronde. Però una speranza ce l’ha: «L‘apparato repressivo non potrà continuare a lungo a uccidere i figli di questa patria, e le crepe al suo interno potrebbero diventare più profonde». Tutto grazie alla forza tranquilla di tre semplici parole: Donna. Vita. Libertà.