In conversazione con Arthur Jafa: “Non sono un impostore”

In conversazione con Arthur Jafa: “Non sono un impostore”

di Marta Papini

Stanco di essere sempre l’unica persona nera nella stanza, aveva smesso con l’arte per dedicarsi alla regia. Il caso l’ha riportato al vecchio amore e ora, a 60 anni e con un Leone d’oro, Arthur Jafa è uno degli artisti più importanti al mondo

«Non ho scelto io il mondo dell’arte, il mondo dell’arte ha scelto me», mi dice ridendo, un po’ incredulo, Arthur Jafa (1960, Tupelo, Mississippi). Il regista e artista afroamericano, premiato nel 2019 con il Leone d’Oro alla Biennale d’arte di Venezia, non ha mai davvero desiderato entrare a far parte del mondo dell’arte. Il successo è arrivato per caso.
Tutto è iniziato con Love Is the Message, the Message Is Death (2016). Sette minuti di montaggio serrato in cui video delle violenze della polizia contro membri della comunità afroamericana, filmini amatoriali, videoclip di musica hip hop e frammenti di vecchi film in bianco e nero raccontano la vita degli afroamericani e il razzismo che permea la società statunitense. Jafa aveva pensato di caricarlo su YouTube, ma il suo amico regista Kahlil Joseph gli propose di presentarlo prima di una sua proiezione in Svizzera, dove avrebbe mostrato il director’s cut di Lemonade di Beyoncé. Quel giorno in platea c’era il gallerista Gavin Brown, che decise subito di contattare Jafa per invitarlo a fare una mostra nella sua galleria di New York. «A volte mi sento come se mi fossi addormentato e mi fossi risvegliato nel mondo dell’arte», racconta: «È stato un momento davvero surreale. Perché certamente avevo avuto interesse a entrarci, ma molto tempo prima, tra la fine degli anni 90 e l’inizio degli anni 2000. Avevo avuto qualche riconoscimento, ma mi sono presto accorto che non mi piaceva. Mi ero stancato subito di essere l’unica persona nera alle inaugurazioni. All’epoca era molto diverso, molto segregato, come se ci fosse l’apartheid. Parlavo con una mia amica artista svedese e le dicevo “È come se tu entrassi in una galleria, e poi in una seconda, una terza, una quarta, una quinta, e non ci fosse mai neanche una donna. Ti sembrerebbe strano, no? È così che mi sento: è surreale, come essere in Twilight Zone ma nessun altro è lì con te”. E poi c’era anche questa pressione, ancora più disturbante, per cui non potevi farlo notare».


Ritratto dell’artista Arthur Jafa

Voltate le spalle all’arte contemporanea, per anni ha fatto il regista e il direttore della fotografia di film e video pubblicitari e musicali. Nonostante oggi il mondo dell’arte l’abbia scelto, ha sofferto di “sindrome dell’impostore”: «È solo da un anno che sento di aver interiorizzato che forse non sono un impostore. Ed è solo da un anno e mezzo che, se una persona mi chiede “sei un artista?”, non ho un sussulto interno. Cioè, ce l’ho ancora, ma non così forte come un tempo». Racconta che un paio di anni fa, dopo il grande successo di Love Is the Message… e dopo aver vinto il Leone d’Oro, ha domandato a Gavin Brown: «Ma quindi ho attraversato il mio momento come un sonnambulo?». All’epoca aveva qualche resistenza all’idea di definirsi un artista, figuriamoci un artista di successo. «Ho 60 anni: non me lo aspettavo, così in là con l’età. Poco prima che il mio amico Greg Tate (scrittore e musicista afroamericano, ndr) morisse», ricorda con gli occhi lucidi, «gli dissi “Mi sento molto inquieto. Prima pensavo fosse perché non avevo avuto successo come artista. Ora non posso più dirlo né fingere di non avere successo. Ma allora perché mi sento ancora così?”. E Greg mi rispose semplicemente: “Perché non hai mai avuto a che fare col fatto di avere o meno successo, sei solo una persona inquieta, fa parte del tuo modo di elaborare il mondo”».


Oggi è subentrata l’idea dell’insuccesso: «Ho pensato che Aghdra sarebbe stato il mio primo, grande fallimento pubblico». Aghdra (2021) è un video di circa 85 minuti in animazione CGI, prodotto durante la pandemia. L’inquadratura è fissa su un tramonto (o un’alba) su quello che sembra un oceano. Ma appena le onde iniziano a gonfiarsi fino a oscurare il sole, la texture della superficie si rivela marrone e terrosa, fitta di crepe, come un grande deserto scosso da forze tettoniche che lo trasformano in flutti. Le immagini sono accompagnate da una base musicale bassa e rimbombante che si alterna con canzoni pop della tradizione afroamericana, distorte e rallentate fino a risultare irriconoscibili, ottenendo un effetto straniante e viscerale insieme. «Sono rimasto sorpreso da quanto sia piaciuta». È senza dubbio un’opera diversa da quelle che l’avevano preceduta, più enigmatica e contemplativa.


Aghdra è stata presentata per la prima volta a New York, alla fine del 2021, e sarà parte del progetto espositivo che Jafa ha pensato per gli spazi del Binario 1 delle OGR a Torino (fino al 15 gennaio). È un lavoro seminale per il nuovo corso della sua produzione, in cui, invece che combinare immagini esistenti, le elabora in visioni astratte, senza citare apertamente le fonti. «Non sono interessato a fare un lavoro che dichiari qualcosa», dice mentre mi fa vedere le collezioni di immagini che lo ossessionano da sempre, ed è evidente come alcune siano confluite in Aghdra pur senza essere visibili. Quando l’ha mostrato ai suoi genitori, dopo un iniziale silenzio sua madre ha detto “Non mi piace, è spaventoso”. «Ed è spaventoso, ma anche bello. Aspiro a creare cose in cui bellezza e orrore si equivalgano. Per questo Miles Davis è l’emblema di quasi tutto ciò che voglio fare. Questa è improvvisazione jazz, ecco cos’è. È come se stessi progettando il caso, l’inaspettato, il non intenzionale. È una contraddizione in termini, ma il jazz ha dimostrato che è possibile».