I suoi scatti raccontano le vittime della guerra come nessun altro. Incontro con il fotografo, in occasione della mostra “IRAQ: una ferita aperta”

Difficile dimenticare persone come Giles Duley. Le sue parole si incollano ai pensieri, il suo sorriso rimane impresso a lungo. A raccontare la sua parabola sono gli occhi. Accesi, sorridenti. Dopo dieci anni di carriera come fotografo musicale, Giles decide di diventare fotoreporter nel 2000. Undici anni più tardi, mentre lavora in Afghanistan, perde le gambe e un braccio in un incidente. Stava fotografando le vittime delle guerra, civili mutilati nel corpo e nell’anima, quando una mina lo rende uno di loro. Dopo un anno di convalescenza, decide di trasformare l’incidente in un’opportunità. Riprende a fotografare, e le sue immagini hanno la potenza di chi sa, di chi ha provato lo stesso dolore. A Milano, Casa Emergency mette in mostra le fotografie che ha scattato a Mosul, terra degli scontri più feroci tra l’ISIS e la controffensiva irachena. In IRAQ: una ferita aperta, Giles racconta la guerra attraverso chi la subisce. Lo abbiamo incontrato in occasione dell’inaugurazione della mostra.

Dalla musica alle vittime della guerra. Come ha deciso di diventare fotoreporter?
Avevo 18 anni quando mi regalarono un libro di Don McCullin. Furono le sue immagini, potentissime, ad avvicinarmi alla fotografia. Iniziai dalle mie passioni: i concerti, le band, lo spettacolo. Sai, quando sei un ragazzino vuoi solo divertirti! Col tempo diventai però sempre più critico nei confronti dello star system, della sua superficialità e della sua rappresentazione della donna. Mi ricordo che un giorno me ne andai nel bel mezzo di uno shooting. Pensai: non è per questo che sono diventato un fotografo. A 28 anni abbandonai la fotografia ed ebbi una forte depressione. Poi mi ricordai del libro di McCullin, del perché volessi diventare un fotografo. Partii per la mia prima missione: l’Angola.

Com’è cambiata la sua fotografia dopo l’incidente del 2011?
Quando ebbi l’incidente, la mia vita, le mie certezze furono spazzate via. Stavo provando le stesse sensazioni che avevano provato le persone che fotografavo. Capii subito che la vita mi stava dando un’occasione: potevo raccontare gli effetti della guerra meglio di chiunque altro. Ero diventato come i soggetti dei miei ritratti, potevo sentire la loro sofferenza, i loro pensieri. Nessun fotografo può raccontare queste persone meglio di me. Anche quand’ero in ospedale continuavo a pensare a come tornare al mio lavoro. Il primo posto che ho documentato dopo l’incidente è stato l’ospedale Emergency di Kabul. È stato il progetto più importante della mia vita, un progetto incredibilmente difficile sia come uomo – perché nessuno vuole tornare dove ha subito un incidente così tragico – ma anche come fotografo, perché facevo fatica a muovermi. Oggi, i mie scatti sono mille volte più forti di prima perché io stesso sono più forte.

Nella mostra Iraq: una ferita aperta allestita presso Casa Emergency racconta la tragedia della città di Mosul, dove dice di aver perso la speranza.
Sì, è così. A Mosul sono stato testimone di atrocità inaudite. E quando vedi centinaia di famiglie sventrate dalla guerra è difficile dire che andrà tutto bene. Non puoi dirlo, perché non è così. Ho sempre voluto ritrarre i momenti di speranza, perché non mi considero un fotografo di guerra, ma d’amore. A Mosul è stato molto difficile continuare a farlo.

Lei mantiene spesso i rapporti con le persone che fotografa…
Sì, spesso torno dalle famiglie che racconto. Per noi fotografi o giornalisti, è molto importante ricordare che le storie non finiscono quando ce ne andiamo. Perché per quelle persone, la storia non finisce con un articolo o una foto. Il motivo per cui fotografo è creare un cambiamento nella condizione di quelle persone. Se vedo che non c’è stato, continuo a raccontare la loro storia, a raccontarla ancora e ancora.

Le è capitato di mettere in dubbio la sua professione?
Spesso mi chiedo se abbia senso ritrarre persone ferite e impaurite, mi sembra un atto di crudeltà. Poi penso che il mio compito sia raccontare le storie di queste persone, ricordare che esiste questo orrore.

Pensa che le persone in occidente vogliano vedere queste immagini?
No, chi vorrebbe? Ma se mi chiede se sia importante farlo, rispondo di sì, certamente. Sa, succede lo stesso anche a me: quando torno a casa, in Europa, e in televisione c’è un documentario sulla Siria e una trasmissione di cucina, io guardo quest’ultima. È la realtà. E non giudico nessuno per questo. Ma il mio dovere è quello di raccontare le storie delle persone che subiscono le atrocità della guerra. Se penso che le mie fotografie possano cambiare il mondo? No. Ma penso che se riescono anche a ispirare una sola persona al mondo, io sono felice. Un giorno ho ricevuto una lettera da un ragazzo australiano  Mi ringraziava perché era entrato nella facoltà medicina. Aveva deciso di diventare medico guardando una delle mie foto. Ecco, mi basta questo. È questo il potere della fotografia.

IRAQ: una ferita aperta. Dal 14 al 23 novembre, Casa Emergency, Milano.