Le Fantastiche quattro. Mostre must, da vedere assolutamente

Le Fantastiche quattro. Mostre must, da vedere assolutamente

di Digital Team

Vince l’emozione. Grazie a installazioni giganti ora fiabesche, ora inquietanti; e poi collezioni da wunderkammer che spaziano dall’antico alla grande contemporaneità

Comunque la si giri, quando ci si trova davanti a un’opera d’arte, qualcosa succede. Anche quando non accade nulla. L’insorgere di un sentimento o il grado zero dell’emozione esistono, li sperimentiamo in ogni caso. La storia dell’arte contemporanea è in fondo, un continuo oscillare fra questi due poli: all’astrazione pittorica più o meno furiosa, lirica, gestuale si contrappone il minimalismo più sussurrato; i concettualismi più cerebrali si  confrontano con la pittura-pittura. 


Paul Morrison​, Taraxacum, 2023​, © Paul Morrison, prodotto e commissionato da DART Chiostro del Bramante courtesy: l’artista​, photo adicorbetta

Emotion. L’arte contemporanea racconta le emozioni, aperta al Chiostro del Bramante di Roma fino al 1 aprile, parla, anzi, vuole suscitare quante più emozioni è possibile: sorpresa, confusione, desiderio, gioia, paura, attesa, angoscia, felicità, orgoglio, eccitazione, nostalgia, ammirazione, sollievo, tranquillità, imbarazzo. E non solo, perché si parte da quali e quante sono le emozioni che ispirano l’artista, per poi chiedersi quante di  queste rimangono nell’opera e, infine, come queste sono percepite dallo spettatore e quanto a lungo. È un discorso affascinante che questa “collettiva” non vuole né può certamente esaurire, ma che, di sicuro, può intrigare il visitatore a esplorare.

Tanti i mondi che la ventina di artisti e relative opere (molte site specific) invitano a esplorare. C’è il fungo fiabesco di Carsten Höller; le cattedrali immaginarie di Piero Pizzi Cannella e la meraviglia della sua Camera Picta ispirata a Raffaello; l’aurora boreale ricreata dall’opera interattiva di Alessandro Sciaraffa; l’universo di colori creato dai prismi scomponibili dell’artista coreana Kimsooja. Sono giusto alcune segnalazioni, perché togliervi il piacere di stupirvi, di immergervi in realtà apparenti (o finzioni reali?)  sarebbe sleale. Come dice il curatore Danilo Eccher: «Emotion è un dialogo fitto e inatteso fra verità e apparenza, è il segno di un confronto guidato dalla sorpresa e dall’emozione». 


Ron Mueck, En Garde, 2023​, ​​mixed media​, Courtesy Thaddaeus Ropac​, photo © Marc Domage

Su questo tema dello spaesamento, dello sfalsamento delle proporzioni, c’è anche in Triennale, a Milano, una mostra che va vista. È la personale di Ron Mueck, aperta fino al 10 marzo, che, proveniente dalla parigina Fondation Cartier, porta nel capoluogo lombardo le gigantesche o lillipuziane sculture iperrealiste dell’artista australiano. Punto centrale dell’esposizione è la monumentale installazione Mass (2017) che per la prima volta lascia la National Gallery of Victoria, Melbourne: sono cento enormi sculture di teschi umani, ammucchiati disordinatamente – come il titolo suggerisce. Impressionante davvero non solo per le dimensioni e l’accuratezza dell’esecuzione di ogni pezzo, ma anche per la complessità dei messaggi: memento mori da sempre il teschio diventa infatti qui tema per riflettere sull’esistenza, i suoi limiti.

Abbandonando parzialmente la riproduzione maniacale di ogni dettaglio, Mueck punta con le opere più recenti a sottolineare l’essenza del suo lavoro, cioè la sua immediata percezione. Lo spiega molto bene En Garde (2023) un minaccioso gruppo di cani di quasi tre metri di altezza. Pochi i dettagli di superficie, ma massima è la tensione che le forme e le espressioni suscitano. Ci sono poi le opere celebri degli anni 2000, quelle di una minuzia impressionante, come In Bed  (2005), una donna stesa a letto che, nonostante il fuoriscala, è assolutamente intima e delicata. E così pure, con proporzioni minori rispetto alla realtà  e per questo inquietante,Woman with Sticks (2009). Da vedere, infine, assolutamente i due filmati che raccontano il modus operandi di Mueck.


David Bowes, ritratto di Gian Enzo Sperone, 1993, collezione Gian Enzo Sperone

Per la stragrande maggioranza dei casi, le mostre d’arte hanno come protagonisti gli artisti, cioè chi l’arte la fa in prima persona. Sono rare invece le mostre dedicate a chi dell’arte e della sua diffusione/commercializzazione ne ha fatto la sua professione: sono cioè i galleristi o mercanti. Qui si entra in un discorso molto complesso su una figura sempre discussa, spesso detestata (soprattutto dagli artisti) e tuttavia fondamentale – nel bene e nel male. Nel 900, figure come Daniel-Henry Kahnweiler, Leo Castelli, Aimé Maeght, ma anche Alexander Jolas, sono state non solo abili commercianti, ma veri produttori di cultura. Anche in Italia abbiamo avuto persone importanti, soprattutto nel secondo dopoguerra, come Renato Cardazzo, Arturo Schwarz, e poi  Lucio Amelio, Chistian Stein, Emilio Mazzoli (tuttora attivissimo). Appartiene a questa eletta schiera il torinese Gian Enzo Sperone, per sessant’anni una delle personalità più influenti dell’arte contemporanea internazionale., con una marcia in più, perché è stato uno dei pochissimi (e a suoi tempi, l’unico) “emigrato” negli States ad avere successo, una fortuna che tuttora gli arride con la sua Sperone Westwater Gallery,a New York.

Mercante e talent scout e anche collezionista. Ed è a questa sua privata passione (e collezione) che il Mart Rovereto dedica fino al 3 marzo la mostra L’uomo senza qualità. Gian Enzo Sperone collezionista che espone per la prima volta tutte insieme, 400 opere selezionate nella collezione privata del mercante. Nata da un’idea di Vittorio Sgarbi, è una raccolta che sorprende per la sua unicità. La verità è che non ti aspetti da una personalità che ha costruito il mercato del contemporaneo una simile ecletticità di autori. Si va infatti da maestri del Novecento, come Giacomo Balla, Pablo Picasso, Lucio Fontana, Andy Warhol, a capolavori dell’arte antica, dall’archeologia romana ai fondi oro del XIV secolo, passando per i lavori di Jacopino del Conte, Sofonisba Anguissola, Bernardo Strozzi, Anton Raphael Mengs, Francesco Hayez. Filo conduttore è la qualità delle opere e, paradossalmente, il continuo contrasto tra antico e moderno, tecniche, provenienze che trova la sua spiegazione nella curiosità onnivora e mai scontata di Sperone.

Mentre siete al Mart, non perdetevi la piccola mostra-omaggio Luca Scacchi Gracco. Artista e avventuriero. Chissà se prima o poi si riuscirà a mettere veramente insieme una sua biografia attendibile. Di certo, rimane il fatto che la mostra delle scatolette di Merda d’artista di Manzoni la fece nel suo Studio d’Arte Contemporanea, a Brera; e fu lui a far conoscere Bacon, Chadwick e quanti altri agli italiani; e poi Klimt, Schiele, gli espressionisti tedeschi, e via dicendo. Storia e mitologia sono tutt’uno nella vita di Scacchi.

Viaggiatore infaticabile, dotato di un occhio speciale, Scacchi è stato anche artista e pittore raffinatissimo. Il progetto espositivo al Mart, ancora da un’idea di Sgarbi, presenta sia una scelta di documenti sia una selezione di quadri. Le tele di Scacchi Gracco sono testimoni di una ricerca articolata su un complesso intreccio di piani e di forme che astraggono alfabeti antichissimi – forse memoria delle esperienze mediorientali – e allo stesso tempo evocano modelli futuribili.