Una mostra degli anni sessanta rimessa in scena oggi a Milano, protagoniste le cravatte in plastica.

 Iconoclasta e sovvertitore del buon gusto, Enrico Baj è stato uno dei pilastri dell’arte italiana. L’innovativa mostra che ebbe luogo nel 1969 a Milano – Baj at Marconi’s. Plastics 1967-1969 – lasciò dei multipli di cui un esemplare è tuttora conservato al Moma e il ricordo di un periodo di grandi trasformazioni che l’artista italiano abbracciò con l’inclusione nei suoi lavori dei materiali industriali come pvc, polietilene, poliestere, alluminio, persino gli stessi Lego che Baj cominciò a incorporare nei suoi collage con gli arazzi, il primo segnale di una deriva verso l’estetica della modernità.

Già nel 1960 Baj aveva preso parte all’Esposizione Internazionale del Surrealismo, una mostra curata da André Breton e Marcel Duchamp alla D’Arcy Galleries. I suoi scritti, di arte e politica, avranno grande influenza su tutte le neoavangiardie, comprese quelle di cui fu lui stesso il padre, il Movimento dell’Arte Nucleare.

Oggi che la galleria Giò Marconi resuscita quella mostra storica degli anni sessanta, dove protagonista è la cravatta – a cominciare da un monumetale omaggio a Pollok – riallestendola nei nuovi spazi di Via Tadino. “La cravatta è il miglior simbolo della cultura occidentale contemporanea” diceva Baj. E riaffiora il ricordo di un’epoca e di un personaggio speciale, come ci racconta il gallerista Giò Marconi. 

Come è nata la mostra Plastics 1967-1969? «L’occasione per rimettere mano al lavoro di Enrico Baj è stata la mostra da Luxembourg & Dayan a New York che si svolge in contemporanea alla nostra. Così abbiamo deciso di ripristinare qui la mostra che originariamente si svolse nella galleria di mio padre, Giorgio Marconi, nel 1969. Di quell’esperienza rimane tra l’altro un pezzo interessante al Moma – si tratta di un multiplo – un sacchetto di plastica che contiene cravatte, cartoline, bottoni e altri tipi di souvenir. E poi ricordo quella sua casa fuori Milano, dove amava molto stare, con un orto e le galline».

Che ricordi ha di Enrico Baj? «Baj mi ha visto nascere e avevo 5 anni ai tempi della mostra. Ricordo che i suoi lavori – in cui m’imbattevo in galleria, ma anche a casa – mi divertivano molto. Mi è rimasta un’immagine piuttosto nitida del suo studio, affollato da scatolini pieni di bottoni e passamanerie. A un certo punto durante la giovane età le ho anche indossate quelle cravatte in materiali plastici».

Che genere di uomo era Baj? «Allegro, curioso, con una risata fragorosa. È sempre stato interessato a dove andavano il mondo e le nuove generazioni, quelle nuove generazioni che ora, ho avuto modo di notare, sono molto affascinate dal suo lavoro. Penso ad artisti anche molto distanti come Wade Guyton».

Perché la cravatta? «Dalla cravatta nasce tutta la serie delle spille e dei generali. Per Baj la cravatta era “l’ornamento dell’uomo comune” in un certo qual modo era il simbolo con cui identificava la borghesia. C’è sempre un aspetto politico nel suo lavoro, anche nelle opere che appaiono più leggere, non va dimenticato che lui è l’autore di quel monumentale quadro che rappresenta l’anarchico Pinelli». 

È un periodo felice per l’arte italiana pressoché storicizzata. «Stiamo vivendo sicuramente una fase di riscoperta se si pensa alla mostra di Alberto Burri a New York. Sempre a New York, da Sperone e Westwater sono in corso contemporaneamente una mostra sulla pittura astratta e l’arte concreta italiana e una retrospettiva dedicata a Nanda Vigo. E da Luxemboug & Dayan con Enrico Baj c’è una mostra dedicata a un altro artista italiano, Alighiero Boetti. Certamente qualcosa si sta muovendo».

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Baj at Marconi’s. Plastics 1967-1969

Galleria Giò Marconi Milano

fino al 31 gennaio