“Punk is (not) dead”… nell’arte e nella moda!
SEX PISTOLS, 1976 - Photo Pete Vernon

“Punk is (not) dead”… nell’arte e nella moda!

di Elena Bordignon

Da Balenciaga a Burberry all’arte contemporanea: se nella moda sono evidenti i continui ritorni delle ondate punk, nell’arte, più che nelle forme, gli artisti sembrano incarnare un’attitudine punk.

E’ stata una rivoluzione giovanile di portata incalcolabile. Spille, creste, abiti rammendati, borchie: questi i segni distintivi che caratterizzavano il movimento punk, nato alla fine degli anni ’70 in Inghilterra. Nato come fenomeno principalmente musicale – la colonna sonora: Sex Pistols, Siouxsie and the Banshees, The Clash, la lista sarebbe decisamente lunga – prima di farsi moda e costume, è stato un modo d’essere e di vedere il mondo: nessuna illusione e nessun futuro; nessuna ingenuità e nessun ritorno alla natura. Oltre alla musica sono gli abiti che hanno dato ufficialità a questo fenomeno giovanile ribelle e anticonformista.
Gli abiti strappati e scuciti, stampati e decolorati ideati da Vivienne Westwood e dall’allora manager dei Sex Pistol Malcom McLaren – il loro negozio in King’s Road  diventerà ben presto fucina di idee della moda punk – erano intrisi di significati di critica sociale e di infrazione dei tabù, amplificati da accessori come spille da balia, borchie e catene. Spille che dai vestiti passano alle orecchie e alla faccia, già pesantemente deformata da un trucco eccessivo e sbrodolato. Per non parlare dei capelli effetto ‘elettrificato’ che rimandava all’idea di elettroshock, strumento di correzione della dissidenza e della devianza. Occhi cerchiati, pallore accentuato, magrezza e posture sgraziate.
Il punk è stato il contraltare del benessere economico, il frutto di una società benestante che ha partorito dei figli in rivolta. Ma cosa è rimasto di questo fenomeno giovanile tra i più estremi? E’ rimasta la forma senza la sostanza rivoltosa. Lo sapevano bene i già citati Westwood e McLaren negli anni ’70 che, alla fine, anche il punk poteva diventare un business come un altro.

Oggi la moda fa man bassa di tutti quei segni ribelli, svuotandoli però di ogni valenza sovversiva. Pensiamo alle borchie che oramai da anni connotano gli accessori Valentino guidato da PierPaolo Piccioli o l’estetica used delle sneakers di Balenciaga; ma già negli anni ’90 ci aveva pensato Gianni Versace, arricchendo di ornamenti borchiati abiti e giacche, così come l’enfant terrible inglese Alexander McQueen riprendeva elementi dello stile punk nella collezione ’95-’96. Da quando si è insediato alla direzione di Gucci, Alessandro Michele sembra avere come fill-rouge tracce punk nelle sue collezioni, tanto che nella campagna Cruise 2019 – Gothic – una tribù di giovani punk scorrazza in un paesaggio agricolo tra capre, mucche e conigli. Più di recente ci ha pensato Riccardo Tisci per Burberry a riportare il punk in passerella. Prima dell’ultima sfilata, rinviata per la scomparsa delle Regina, il brand ha pubblicato dei cortometraggi girati sulla costa britannica con ragazzi truccati con pesante eye-liner (ricordano vagamente i Kiss), con alte creste e girocolli di borchie appuntite. Ha lasciato tutti a bocca aperta l’allestimento di Santiago Sierra – artista spagnolo tra i più provocatori – per la sfilata di Balenciaga, dove modelli in felpe sdrucite e piercing in faccia, hanno sfilato in mezzo a 275 metri cubi di fango. Che il nuovo accessorio “must to have” sia il paradenti con logo Balenciaga?
Nel contesto artistico il punk è stato letto come uno slogan – “No Future!” – da rintracciare nei movimenti come il Situazionismo e il Dada. Per trovare l’attitudine punk, allora, bisogna ricercare tutti quegli artisti che negli anni ’70 hanno preso parte alla sua esplosione, con l’uso di elementi come rumori, tipografia cut-out, l’anti-design e il gusto per l’orrido.

Negli ultimi decenni, tra gli artisti etichettati come ‘punk’, il capofila è senza dubbio Steve Parrino – scomparso prematuramente in un incidente all’età di 47 anni – con le sue tele afflosciate e le sue installazioni dedicate a figure leggendarie come Joey Ramone, frontman del gruppo punk rock Ramones. Il noto critico d’arte Jerry Saltz ha definito il lavoro di Parrino ‘astrazione heavy metal manierata, romantica, concettuale-formalista boy-art”.
L’estetica del do it yourself, il corpo come luogo di battaglia, i riferimenti espliciti alla paura e al terrore, ma anche temi quali nichilismo, anarchia e distruzione sono tutti argomenti che hanno animato schiere di artisti.
Mike Kelley, con il suo utilizzo del linguaggio e di pupazzi infantili quasi a rivendicare la libertà e l’autarchia dei bambini, il mondo splatter e trash di Paul McCarthy, i graffianti disegni di Raymond Pettibon, le negazioni in scala monumentali delle opere di Santiago Sierra, il gusto escatologico dei Gelitin per l’escremento utilizzato come elemento tipografico, le anime perse degli ambienti newyorkesi immortalate da Nan Goldin e Jean-Michel Basquiat, che oltre ad essere un pittore ha militato nella scena punk di NYC, habitué dei locali come CBGB e Mudd Club; Gavin Turk che si è immortalato come Sid Vicious, in un opera fotografica del 2000 e, sempre nello steso anno, Christian Marclay ha girato il video Guitar Drag dove ha ripreso una chitarra collegata ad un amplificatore trascinata da un furgone: omaggio ai suoni casuali e aleatori tipici del punk.
La lista potrebbe allungarsi ancora, ma preferiamo sfumare con un motto intramontabile “Punk is (not) dead”: il punk è come un morto vivente, uno zombi che continua a vivere tra noi.