Alla Triennale di Milano, una mostra racconta l’immaginario creativo dello stilista americano

“Non sogniamo tutti di essere come Gene Simmons dei Kiss attorno al 1977, quando sfatto dal sudore sbavava sangue in un assolo epico illuminato da un riflettore nella foschia del palco? O sono solo io?”

Basta poco per visualizzare l’immaginario creativo di Rick Owens. Un immaginario che mescola il rock e il punk, l’arte di Duchamp, Beuys e Manzoni, il design di Eileen Gray e Mancusi, ma anche il sacro e il profano, il gotico e l’ancestrale. Tutto confluisce nei suoi abiti visionari, nelle sue armature futuristiche che attingono da culture lontane nel tempo e nello spazio. Architetture da indossare che evocano universi distopici abitati da umanoidi transgender vestiti di nero, di ghiaccio e di cenere. Niente di più distante dalla sua terra natia, l’assolata California. Ma che non sia esattamente un tipo conformista, Rick Owens l’aveva chiarito fin da subito, più di vent’anni fa, dicendo: “Vorrei stendere uno straccio nero scintillante sul bianco paesaggio della conformità”. Una dichiarazione di intenti mai disattesa.

A credere in lui dal principio, nel 1994, fu la regina della moda, Anna Wintour, che riconobbe l’originalità del suo stile Glunge – dall’incontro tra glamour e grunge – sostenendolo durante la sua prima sfilata a New York. Da lì in poi, l’inarrestabile ascesa. Ogni collezione, una sorpresa. Ad accompagnare lo stupore, le sfilate in equilibrio tra performance e concerto, espressione massima della sua visione dell’arte e della moda. Due cose intrinsecamente unite, indistricabili. Poi, nel 2005, il debutto nel design con la prima collezione di arredi realizzati in compensato, in marmo e corna di alce americano. Ancora una volta, Owens sceglieva di lavorare con i materiali grezzi, rifacendosi agli archetipi per costruirne di nuovi. L’ultimo riconoscimento è del giugno 2017, con il Lifetime Achievement Award del Council of Fashion Designers of America.

Oggi, a rendere tangibile il suo mondo interiore è la Triennale di Milano con la mostra Subhuman Inhuman e Superhuman curata da Eleonora Fiorani, la prima retrospettiva in assoluto dedicata allo stilista. Ad accogliere i visitatori è una sala completamente buia, dove la luce dei fari funge da soglia d’ingresso alla stanza principale in cui si ergono, ad altezze diverse, i manichini con gli abiti realizzati dagli anni Novanta a oggi. A dominare il tutto è una nuvola nera di cartongesso, che segue il percorso fino alla fine assumendo varie forme e dimensioni, trasformandosi, scendendo e risalendo. Punteggiano la sala gli arredi progettati dal designer, le sue sedute ricoperte di pelle e pelliccia, mentre le teche di vetro custodiscono fotografie e opere grafiche, disegni, ricordi e oggetti cari allo stilista. Si comprende l’approccio alla moda, quell’intreccio di passioni discordanti che anima le sue creazioni: “I vestiti che creo sono la mia autobiografia. Rappresentano la calma elegante a cui aspiro e i danni che ho fatto lungo la strada. Sono un’espressione di tenerezza e di un ego furente. Sono un’idealizzazione adolescente e la sua inevitabile sconfitta”.

La mostra, visibile fino al 25 marzo 2018, è accompagnata da una box in edizione limitata prodotta da Electa contenente testi, immagini realizzate in collaborazione con fotografi, oggetti e un profumo inedito.