I “divoratori” di Stefano Sgambati e le voragini dell’anima

I “divoratori” di Stefano Sgambati e le voragini dell’anima

di Giacomo Alberto Vieri

A tu per tu con l’autore de “I divoratori”: di quella volta che nel bagno di un ristorante la sua faccia “crollò” e di quella dimensione privata che è in realtà un abisso, una botola in cui rinchiudiamo il lato più sincero di noi stessi. Che può essere molto, molto feroce.

Dopo Gli eroi Imperfetti (Minimum Fax) e La Bambina ovunque (Mondadori), Stefano Sgambati, classe 1980, nato a Napoli, vissuto a Roma e ora di base a Milano, torna in libreria con il nuovo romanzo I divoratori (Mondadori), che ci porta nella sala di un prestigioso ristorante stellato insieme a vari commensali mentre gustano le raffinate pietanze dello chef Franco Ceravolo, incantati dal magnetismo di una coppia hollywodiana presente.

Una situazione insolita, pittoresca, a descriverla così. E sono i movimenti delle coscienze, i pensieri che fluttuano fra calici e piccolissimi gesti, quelli su cui si concentra l’Autore, in un romanzo che rimane teso, come prima di una catastrofe, dall’inizio alla fine.

Ma partiamo dal principio..

Stefano, da dove nasce il tuo ultimo romanzo “I divoratori”?
A posteriori, mi rendo conto che qualsiasi cosa io abbia scritto è iniziata da una minima immagine, una vaga esplosione nello sterminato cosmo degli incastri narrativi possibili a malapena visibile e che poi, in fin dei conti, cioè a romanzo finito, o non c’entra più nulla con l’insieme o è diventata marginale. Ti racconto come è andata coi Divoratori: sono a cena con mia moglie, in un ristorante milanese. Per la verità mia moglie non è ancora mia moglie, ma solo “una”, “una” che ho conosciuto da poco. A un certo punto mi sento in un certo senso stanco, stanco di tutta quella performance del corteggiamento, l’esibizione dell’intelligenza, dello humour, della parte migliore di sé. L’apprezzare il cibo, il vino, essere sofisticati, adeguarsi costantemente all’altro. Un balletto che ogni tanto mi manca, ma che il più delle volte sono felice di essermi lasciato alle spalle, come il liceo. Perciò mi scuso e vado in bagno. Lì mi sento obiettivamente meglio. Lontano da tutto, davanti allo specchio, il mio viso si rilassa o per meglio dire crolla come una finestra che va in frantumi e impiego parecchio tempo per rimontarmi addosso la parte di me che credo serva per proseguire la serata. Così mi chiedo: e se io non fossi semplicemente io?, Se fossi la più incredibile star mondiale, la celebrità più glamour immaginabile, quanto sarebbe complicato, adesso, tornare lì fuori? Quanto sarebbe importante, se fossi a tal punto famoso, avere una botola in cui nascondere il cadavere di me stesso? Questo piccolo osso spuntato dalla sabbia ho poi passato anni a disseppellirlo fino a scoprire l’intero scheletro e la questione del divo è solo una parte piccolissima del tutto, ma così è iniziato.

Molto potente. Nel tuo libro, una cosa che colpisce moltissimo – fra le varie – è il rapporto fra pubblico e privato, spazi e ruoli che assumono nella vita di ognuno. Ecco…Cosa è per te privato?
Il privato è un abisso. Privato non è, almeno nell’accezione che ha a che fare coi Divoratori, l’opposto di pubblico; privato è un livello ancora più sotterraneo, è ciò che siamo alle tre e venti di notte se veniamo svegliati improvvisamente da un terremoto. È quella sincerità assoluta che sfiora la ferocia, lo stato di natura. Il privato che mi interessa è questo. Solo questo è il privato che ha dignità letteraria. Ciò che dovrebbe entrare in un libro. Non ho interesse a sapere che a colazione, la domenica mattina, i tuoi figli ti riempiono di baci e sono buffi; non voglio sapere quanto sia incredibile e totalizzante amarli e vederli crescere e passare piccoli momenti di incanto con loro. O meglio: se stiamo chiacchierando in un bar sì, me lo puoi raccontare, e io ti ascolto. Ma se stai scrivendo un libro, ciò che mi interessa è il tuo desiderio di ucciderli, i figli, poiché la domenica mattina vorresti silenzio e loro invece urlano e ridono e chiacchierano. Raccontami come ci sei andato vicino, quella volta, quando stavi per usare la stessa bottiglia per fracassare la testa a entrambi.

Dimmi una cosa che ti piace dei social network
I balletti sexy su Tik-Tok sono una cosa.

Hai un luogo caro per scrivere? Un orario?
Ho due figlie, una di quattro anni e una di tre mesi. Non ho più un luogo, non ho più un orario che non sia quello dettato dall’asilo. Altra cosa: ho sempre scritto fuori casa, in biblioteca, nel mio bar o nella mia libreria preferita, ma sono tempi pandemici ed è meglio di no. Perciò da poco mi sono costruito un piccolo studio in camera da letto ed è come se mi avessero regalato uno chalet in Val Gardena.

Hai esordito coi racconti, nel 2011. Pensi di regalare, a noi amanti folli del genere, una nuova perla o ormai solo romanzi? E perché i racconti, in Italia, “non funzionano, non si leggono”?
Mi manca molto scrivere racconti, ma come disse qualcuno: per scrivere cose brevi ci vuole troppo tempo. Non so se i racconti in Italia non funzionano: io penso che funzionerebbero se qualcuno scrivesse bei racconti anziché racconti scadenti. Paolo Zardi, Marco Drago: negli ultimi vent’anni non mi vengono in mente, a parte loro, altri autori che abbiano scritto racconti degni di questo nome (e i libri di racconti di questi ultimi, infatti, hanno funzionato eccome).

Da dove nasce il titolo “I divoratori”?
I divoratori sono i miei personaggi e, in generale, sono le persone che in fin dei conti mi incuriosiscono e che mi piace frequentare: gli impuri, chi possiede quella botola di cui parlavo qualche risposta fa; mi ha sempre attratto questo termine, riconduce a qualcosa di gastrico e violento, di disgustoso e liquido, di macerato, di digeribile. È un atto sia barbarico sia infantile, primigenio e inevitabile. Quando mia figlia di pochi mesi ha davvero fame, si attacca al capezzolo con un accanimento spaventoso, muove la testa alla ricerca della fonte come un puma che stacca la carne da una carcassa e io vedo, sento che quel piccolo essere di cinque chili scarsi, se solo potesse, si mangerebbe viva la madre a partire dalla mammella. È così ferino, così ancestrale. Il mio libro, in un certo senso, parla di questo, parla di loro.

Chi è il tuo primo lettore (o lettrice)?
Generalmente il mio agente. So che può sembrare una risposta fredda, ma non riesco a sottoporre ciò che sto scrivendo ad amici o conoscenti “X”. Non è questione di intimità o di tensione, anzi è l’opposto: non ho alcuna intimità col mio testo, non ho bisogno di “letture emotive”, ma solo professionali. È terribile, lo so, e io sono un mostro e forse mi perdo un grande momento, ma tra mia moglie che mi dice: ‘Ehi, è bello, bravo!’, e il mio agente che mi dice: ‘Ehi, è bello, bravo: c’è Woody Allen che vorrebbe tirarci fuori un film’, preferisco la seconda opzione.