Intervista a Venerus

Intervista a Venerus

di Patrizio Ruviglioni

«Sai dove parti, non dove arrivi», è nato così Il segreto, secondo album dell’artista milanese: un trip visionario tra psichedelia ed esoterismo, ma anche rap, r&b, soul. Libero dalle mode, in fuga dall’omologazione e soprattutto dalla perfezione

La musica di Venerus è un viaggio mentale. «È come fare il pilota», sorride lui. «Di solito è un compito che si attribuisce al dj, che con la sua selezione conduce il pubblico altrove. Ma a me piace il posto di comando, dire “adesso guido”, anche se canto e compongo». È un viaggio interiore, spiega, dove il motore è “la fantasia”, a cui infatti dedica il brano di chiusura del nuovo album Il segreto, a due anni dal debutto di Magica musica, un titolo che resta un programma. Psichedelia, esoterismo, poteri sovrannaturali. Anni 60 e 70, passione per le suite e gli strumenti veri e propri, ma anche rap, r&b, soul. E tante esperienze private rimasticate in testi intimi che «non sono egoriferiti, ma aprono le porte dell’ascoltatore, lo confortano». Viaggi, appunto, organizzati e disorganizzati, personali e collettivi. «Quando cominci a scrivere sai dove parti, ma non dove arrivi. Così nascono i dischi. Il resto sta all’ascoltatore».A sentirlo parlare, Venerus – che di nome fa Andrea, ha 30 anni e viene da Milano, anche se per un periodo ha studiato chitarra a Londra e questo gli ha cambiato prospettiva – sembra un reduce del Sessantotto. 


Lo ammette lui stesso a un certo punto dell’album, quando da vero figlio dei fiori dice che per lui «l’unica legge è l’amore». E lo è nei riferimenti, Beatles e Pink Floyd su tutti, così come nell’approccio «libero dalle mode e dai condizionamenti dello streaming, perché voglio che queste canzoni restino, non che finiscano sommerse dalla prima onda come quelle che ascolto oggi, che somigliano all’ananas del supermercato».

Il segreto è nato nel suo studio, che «è qualcosa di diverso da uno classico di registrazione». Me lo mostra durante questa videochiamata in cui si guarda spesso intorno ma non perde mai il filo, si tormenta la barba da santone e ondeggia gli orecchini. Sulle pareti ci sono tavole e illustrazioni varie che usa durante i concerti. Di solito lì indossa dei costumi, ma così, “spogliato”, non sembra meno lui. C’è una strana, rara continuità. Si è chiuso qui, racconta, con la band. Tre giorni per registrare le tracce, senza metronomo e suonando tutto in analogico, «come un live». Ha inserito perfino dei rumori di fondo, tra cui quello di un treno. «Volevo trasmettere il sentimento, nient’altro. Le classifiche premiano l’omologazione, a me interessa essere me stesso al cento per cento. Quindi, per esempio, non ho ritoccato la voce. Se si cerca la perfezione, al massimo succede che… sei perfetto. Ma a che serve? Io voglio le sfumature».


Anche sporco e impreciso («ma se sai suonare il problema si riduce»), quindi, il suono di Venerus è caldo e avvolgente, antico ma non datato. Ha tanti agganci con il presente, solo che è un presente che non ha niente da spartire con il pop da classifica. Lui ne è quasi geloso, lo protegge. «Quando compongo, godo. Penso sempre ai Pink Floyd, a quanto “volassero” in sala d’incisione». Anche loro si facevano bei viaggi, concordiamo, ma a dargli una mano c’erano le droghe. «Ognuno fa come crede. Io alimento la creatività con le letture, ma ho avuto esperienze con gli allucinogeni. Non faccio proseliti. Vorrei si normalizzasse il discorso per potersi informare in merito, senza tifoserie né proibizionismi». Musica libera, ma anche di liberazione.