I segreti dello chef: estro, ricerca e rispetto per la materia prima, il tutto condito da voglia di sorprendere e mettersi in gioco attraverso sapori unici magistralmente bilanciati

Entrare in un ristorante prima dell’orario abituale d’apertura è come varcare la soglia del backstage di un grande teatro all’inizio di un concerto. Come gli artisti e le maestranze, dallo chef alla brigata di cucina, fino al personale di sala, ognuno sa perfettamente cosa fare: lavora in un silenzio quasi religioso e si concentra come se dovesse ripassare la parte e le azioni da compiere. Poi, dopo che tutto è stato calibrato al secondo, porta sul palco, pardon in tavola, quel piatto che altro non è che un’opera d’arte multisensoriale che fa godere l’ospite.

È questo ciò che traspare incontrando Franco Aliberti ai Tre Cristi di Milano, che dal quartiere futurista di Porta Nuova dà il via ogni giorno, quale executive chef dello storico ristorante, al suo spettacolo culinario. Godimento per gli occhi e il palato.

“Devo tanto alla mia mamma e alla sua fantasia. Per intrattenere me e mio fratello, quando eravamo piccoli, si era inventata una sorta di sfida a chi sapeva lavorare la pizza in modo più creativo. Pizza artistica, la chiamavamo”, racconta Aliberti sorridendo al ricordo della sua infanzia tracorsa a Pompei. ‘E tutto è partito da lì’.

Preciso, meticoloso, accurato Aliberti nasce prima di tutto pasticcere (mamma Angela sfornava anche ottime torte di mele e pere), e ora, a soli 33 anni, con un sorriso sempre acceso e una gran voglia di fare, spiega di non aver mai smesso di creare giocando: con una stampante 3D realizza infatti per i Tre Cristi piatti dal design unico con cui i commensali gareggiano a comprenderne la forma tra broccolo o finocchio.

“Anche l’amore per le verdure viene dalla mia mamma. Per togliermi dalla strada e dalle cattive amicizie mi portava a giocare nei campi. Ricordo interi pomeriggi trascorsi a sfrecciare tra le linee di pomodori, a toccarne le foglie profumate fino a tingermi le mani di verde, a mangiarne il frutto ancora acerbo”, continua lo chef.

Con alle spalle un’esperienza professionale di tutto rispetto, Aliberti vanta di aver collaborato con maestri dell’alta cucina del calibro di Alain Ducasse, Massimo Spigaroli, Massimiliano Alajmo, Gualtiero Marchesi, Massimo Bottura, Gianluca Fusto, Corrado Assenza, di aver vinto anche premi come Miglior chef pasticcere nel 2010 e Miglior Chef under 30 nel 2017 per la guida Identità Golose, oltre che come Miglior pasticcere per la Guida ai Ristoranti d’Italia de Il Sole 24 Ore nel 2011. E non si ferma qui. Nel 2014 decide di aprire il suo primo ristorante a Riccione, EVVIVA, dolci e cucina a scarto zero, con Andrea Muccioli fino a lavorare dietro ai fornelli de La Preséf dell’Azienda Agricola de “la Fiorida” a Mantello, in Valtellina, con lo chef Gianni Tarabini.

Ora è a Milano dove ogni giorno realizza ai Tre Cristi piatti eleganti, privi di forzature e allo stesso tempo originali, composti da pochi ingredienti chiaramente riconoscibili al gusto, oltre che a Km (quasi) zero, nel pieno rispetto della materia prima e del territorio.

La carta è una vera tentazione e i menu degustazione dedicati alla città sono da provare entrambi. Qui, lo chef gioca con le papille gustative dei commensali proponendo fin dall’inizio deliziosi panettoni (salati) e pane eseguito solo con lievito madre su cui si possono spalmare sul primo, uno zabaione delicato e, sul secondo, un burro montato strepitoso. Nel menu “In Città” (7 portate) Aliberti rappresenta nel piatto i quartieri milanesi che vanno da Castello a Isola, da Porta Nuova ai Navigli, da Sarpi a Dergano. Qualche esempio? Piedini di vitello, pancotto, riso al cavolo cappuccio viola, trota affumicata ma anche ravioli, salmerino e alghe. Per dessert Fernet, cioccolato bianco e carbone vegetale, più un Mont Blanc di marroni e meringa. Nel menu “A Due Passi da Milano” (10 portate) in ogni piatto lo chef campano combina con bravura ingredienti che provengono dal capoluogo meneghino e da zone limitrofe: 10 km per i prodotti dell’orto urbano, 20 km per il Riso riserva San Massimo, 60 km per il biancostato, 132 km per la zucca. E così via.

Sempre contemplati in carta, paccheri o spaghetti con la conserva di pomodoro della casa, piatto fisso realizzato a regola d’arte eseguendo, da pasticcere qual è rimasto nell’animo, ogni passaggio in modo maniacale: “La pasta al pomodoro è una ricetta classica apparentemente semplice e che tutti riproducono a memoria, in modo quasi meccanico. Io scrivo e seguo alla lettera ogni ingrediente, dosaggio e step della preparazione calcolando tutto al secondo, perché non ci siano sbavature, incertezze e dubbi nel saperla replicare. Da me come da chiunque della mia brigata”, prosegue l’executive chef. Una sorta di ricerca della perfezione? “La perfezione è un’altra cosa. Quando resto folgorato da un sapore, magari da un accostamento proposto da qualche collega, a volte penso che non ci siano altre strade per quell’ingrediente, che così combinato sia perfetto. Perché io possa evolvermi, perché possa ottenere un’interpretazione nuova ed unica di quel piatto devo invece conoscerne ogni singola sfumatura della ricetta e poi scordarla per crearne successivamente una tutta mia originale. Solo così si raggiunge l’eccellenza”, dice ancora lo chef citando il consiglio di uno dei suoi maestri. In questo modo non rischia di essere un bravo esecutore, Aliberti, ma un interprete puro, dalla mente e palato sempre vergini.