Urban mining: una miniera nel cassetto

Urban mining: una miniera nel cassetto

di Umberto Schiavella

Si chiama “urban mining” ed è un modo intelligente, etico e sostenibile, per estrarre minerali preziosi dalla nostra spazzatura tecnologica

Si trovano in fondo a quel cassetto, quello che non apriamo mai, o in quella scatola abbandonata in cantina o nel ripostiglio, tra vecchi caricatori, telecomandi in disuso e cavi aggrovigliati: sono quei reperti tecnologici che, in un’altra era geologica, si chiamavano “telefonini”. Questi antichi manufatti, oltre che di ricordi nostalgici dei bei tempi in cui giocavamo a “Snake” e inviavamo sms, sono anche giacimenti di minerali preziosi che aspettano solo di essere sfruttati. Si chiama “urban mining” e consiste nell’estrazione di metalli e materiali preziosi dai rifiuti. In particolare i “Raee”, i rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche, sono una vera miniera d’oro, letteralmente. Risorse sprecate che potrebbero essere valorizzate: secondo la Banca Mondiale, nel 2022 sono stati buttati via 16 miliardi di cellulari.


«Queste riserve di risorse secondarie sono comunemente chiamate “giacimenti urbani”, perché spesso vengono portate o si trovano nelle aree urbane e nelle periferie delle grandi città. Ne esistono in tutto il mondo, ovunque siano presenti rottami, discariche chiuse a cielo aperto, cantieri o perfino cantine e soffitte», spiega Kate O’Neill nel libro Oro Sporco. Economia e politica della spazzatura (Luiss University Press). E in un Paese come il nostro, che storicamente non possiede vene aurifere, potrebbe rivelarsi una grande opportunità. Come racconta Danilo Fontana, ricercatore Enea e responsabile del progetto Portent, un processo innovativo per il recupero di materiali rari da telefoni cellulari e smartphone a fine vita, «per l’Italia utilizzare queste miniere urbane è quasi un must. Queste apparecchiature contengono una quantità importante di metalli nobili di elevato valore strategico. La ricchezza è tutta racchiusa nelle schede elettroniche, che in Italia mediamente non trattiamo e, una volta raccolte, vengono spedite all’estero». Un’occasione mancata. Come sottolinea Fontana: «Una sabbia aurifera può contenere circa tre grammi di oro per tonnellata, da una tonnellata di schede elettroniche si possono ottenere fino a 240 grammi d’oro».


Derivato dall’esperienza acquisita con l’impianto di ricerca Romeo (ideato per il recupero dei materiali pregiati dalle schede elettroniche o da altri tipi di matrici come le batterie al litio), il progetto Portent, finanziato dalla Regione Lazio attraverso il Fondo Europeo di Sviluppo Regionale e coordinato dal laboratorio Enea per il recupero e la valorizzazione di rifiuti e materiali, sta testando le potenzialità industriali dei processi chimici per trattare i telefoni direttamente sul nostro territorio utilizzando l’idro-metallurgia, un metodo brevettato dall’ente di ricerca italiano. Ma l’urban mining non è “semplice” riciclo utile a compensare la scarsità di materie prime estratte con i metodi tradizionali, ha anche un fine etico ed ecologico, come ricorda O’Neill: «Può sostituire l’estrazione di metalli e pietre preziose nelle zone di guerra, i metalli e le gemme “macchiati di sangue” che servono alle organizzazioni militari e paramilitari per finanziare i conflitti. Non produce gas serra e abbassa l’impatto ambientale spesso associato alle tradizionali pratiche di estrazione, che molte volte provocano danni estesi agli ecosistemi e ai terreni, e devastanti evacuazioni di intere comunità».