Mettetevi comodi: arriva su Netflix “Mank”
Courtesy Gisele Schmidt/NETFLIX

Mettetevi comodi: arriva su Netflix “Mank”

di Andrea Giordano

“Mank”, l’ultimo film di David Fincher, mette in scena lo scintillio degli anni ’30, mai così belli da rivivere, e pronti a conquistare i prossimi Oscar. Un racconto del dietro le quinte di “Quarto potere” di Orson Welles, ma verosimilmente scritto e ideato da Herman Mankiewicz, qui intepretato da un sontuoso Gary Oldman.

Con quarto potere, nel 1941, Orson Welles realizzò il suo capolavoro. Una lezione di cinema, stile e avanguardia anche dopo 80 anni (nel 2021 cadrà l’anniversario), in cui lo stesso spettatore, attraverso i flashback e le diverse prospettive degli interpreti, prova a ricomporre il puzzle su chi, cosa, ha rappresentato il magnate–protagonista, Charles Foster Kane. Avido, insensibile, cittadino modello, o pioniere? Un gioiello narrativo (da rivedere) di comunicazione, la cui sceneggiatura co-scritta fu molto probabilmente unicamente scritta solo da Herman Mankiewicz, per la quale, insieme allo stesso Welles, vinse l’Oscar (entrambi non si presentarono alla cerimonia). Un merito a metà dunque? Neanche per idea.

Da questa riflessione spicca il volo Mank (dal 4 dicembre su Netflix) di David Fincher, alla scoperta nuovamente di quella fabbrica onirica che fu la Hollywood dorata di un tempo: gli anni ‘30, sfavillante periodo di dive e divi, di mecenati e produttori, preda della Grande Depressione eppure a caccia di storie, volti, per poter ridare speranza ad un intero Paese, avvolto dalla crisi economica ed esistenziale, ma doverosamente in debito di sogni.

Un film alla scoperta proprio di Mankiewicz, “Mank”, che viene seguito nei tre mesi di scrittura a mano, commissionati da un ventiquattrenne regista (Welles per l’appunto). Un periodo passato praticamente a letto, infortunato dopo un incidente in automobile. Preda dei vizi (‘alcolista suicida’) e del gioco d’azzardo compulsivo, una mina vagante e sovversiva nel, e per il, Sistema. Mank è, però, costretto a sfornare forzatamente la perfezione, citando Pascal ‘Se solo avessi avuto più tempo, avrei scritto una lettera più breve’, venendo seguito dalla segretaria inglese Rita (Lily Collins), e un’assistente tedesca.

Rinchiuso nel ranch di Victorville, in California, fa leva dunque sulle proprie memorie e sugli incontri avvenuti negli studi della Paramount, nella famigerata MGM – Metro Goldwyn Mayer, quella del leone ruggente per intenderci (“la vera stella”), con il padre-padrone Louis B. Mayer, con Irving Thalberg, l’attrice Marion Davies (Amanda Seyfried), e ovviamente con William Randolph Hearst, il vero mantra – fonte ispirazione della storia. Lustrini e divismo, champagne come ricordi, Hollywood sta per compiere un passo importante: abbandonare il muto per convertirsi al sonoro.

Serve qualcosa di geniale e (s)regolato, basta film sui gangster, o stile fratelli Marx, il Cinema ha bisogno di rinnovarsi, provando ad essere più ambizioso, a sfidarsi. D’altronde è lo stesso Mayer, in una delle tante scene chiave, a servire la lezione capitalistica maggiormente importante, rivolgendosi ai due fratelli Mankiewicz: “L’arte per l’arte. Cosa mi fa piangere? Le emozioni. E dove le provo? Nel cuore, nella testa e negli attribuiti. L’acquirente ottiene un ricordo spendendo soldi, quello che compra appartiene a chi gliel’ha venduto. È questa la vera magia del cinema”. Ma mentre enuncia le tre regole a cui attenersi, se si vuole lavorare con lui, parla alla famiglia della MGM, fingendo, chiedendo comprensione ai dipendenti, per ridursi lo stipendio, per poi tornare implacabile una volta finita la patetica, ma vincente, messa in scena. Ed in questo grande inganno sta l’illusione che tutto sia vero o presunto.

Ma qui è soprattutto Mank, interpretato da uno strepitoso Gary Oldman, trasformista appesantito, pronto a conquistare una seconda statuetta, dopo quella per il suo Winston Churchill ne L’ora più buia, a farci comprendere cosa sia effettivamente successo nel dietro le quinte di quel gioiello senza tempo, portando in scena ora un saggio poderoso sul potere, su un’epoca luccicante, ma anche capace di distruggere i suoi eroi, distorcendone le vere realtà e identità.

Una gemma, la pellicola, scritta, però, da Jack Fincher 30 anni fa, proprio il padre di David, che (scomparso nel 2003) non riuscì mai a mettere in piedi il progetto. Ossessione, e ora realtà, per quel figlio, divenuto grande, in tutti i sensi, e pronto anch’esso, speriamo, a raccogliere i frutti di tanti sforzi, per essere celebrato dalla Hollywood di oggi, in forte debito (da Seven, Zodiac a The Social Network) nei suoi riguardi, e per quella scrittura, accorata e personale, il cui credito è rimasto volutamente alla mano originale.

Fincher jr. confeziona dunque qualcosa a cui voler bene, ritoccando visivamente lo splendore in bianconero, in un’esperienza piena, paradossalmente, di altre sfumature, volutamente imperfette, nei rumori di fondo, nei suoni frammentati, nei sfrigolii dei microfoni, nella musica performante e retrò (disegnata da Trent Reznor e Atticus Ross), come se Mank fosse appena stato ritrovato in un vecchio archivio impolverato, e lo guardassimo per la prima volta. È il piacere e lo stupore di chi ritrova una pellicola perduta, e ha bisogno di riconnettersi ad un mondo, ad una immaginaria Shangri-La, quasi una mistica e incantata Xanadù (direbbe Samuel Coleridge), ad un modo di raccontare, o, come dice Oldman–Mank, ad una narrazione che è “come una girella alla cannella”. Ed alla fine il miracolo prende forma, e davvero, per un momento, viene voglia di tornare a sognare quel passato.