Andrea Lattanzi e la sua graduale scalata: storia di un ragazzo e della sua vita di attore, che negli ultimi anni lo ha visto farsi largo, da “Sulla mia pelle” fino all’ultima sfida di “Summertime”, serie in onda su Netflix. E il bello deve ancora venire.

Promessa, conferma, talento, forse qualcosa di più, e un obiettivo a stelle e strisce. Andrea Lattanzi, ventottenne attore romano, è il volto giovane di maggio (qui l’intervista a Riccardo Maria Manera, volto di aprile) capace, in poco più di tre anni, di distinguersi grazie a progetti diversi, sempre presentati in festival prestigiosi. I film sembrano andare di pari passo con la sua vita, piena di alti e bassi, cadute e risalite, scandita sempre, però, da quel desiderio di cambiare e dare una svolta: dall’esordio fulminante avvenuto in Manuel, bellissimo racconto di formazione, a una delle occasioni più importanti, Sulla mia pelle, incentrato sugli ultimi giorni di Stefano Cucchi, al fianco di Alessandro Borghi.

Ma se da un lato, prossimamente, lo vedremo in Letto n. 6, ghost story, accanto a Carolina Crescentini, e in Palazzo di Giustizia (visto all’ultima Berlinale), adesso la sfida (seriale) si risposta sulla piattaforma globale di Netflix. Nella nuova teen drama, Summertime, ispirata dal romanzo cult di Federico Moccia, Tre metri sopra il cielo, interpreta infatti Dario, l’amico del protagonista Ale (Ludovico Tersigni), un ragazzo dalle passioni forti, motori e musica, discreto, ma che alla fine trova il coraggio di raccontare molto più sé. Proprio come lui.

Il tuo personaggio si svela poco a poco, eppure sa essere incisivo. C’è qualcosa in comune?
Mi ci ritrovo, in effetti, anch’io seleziono le cose, le persone, ma alla fine so bene quello che voglio fare, nella mia vita, nel mio percorso. Non sono lo strafottente di turno che, come dire, arriva sul set e vuole “spaccare” tutto, ma ho la determinazione, quello è un fattore diverso. Formandomi col cinema d’autore, qui volevo dare una svolta. Summertime rappresenta così una rivincita, c’era il desiderio di lavorare in una serie del genere, ritrovandomi nuovamente su Netflix, e dire “posso farla”, senza presunzione, così la voglia di far vedere quanto tengo al mestiere dell’attore. La storia, il cast, la produzione, hanno fatto il resto.

La vicenda di Stefano Cucchi ha scosso tutti: cosa ti rimane di quell’esperienza sul set?
Ogni giorno mi meravigliavo, Alessandro è davvero uno degli interpreti migliori in circolazione, è stata una grande fortuna essere chiamato. A volte c’è la paura, di affondare, di prendere scelte sbagliate, ma in certi momenti fa bene perché la troppa convinzione ti fa sbattere contro un muro. Quando le cose esplodono, poi accadono, ma questo lo realizzi dopo. L’uscita in sala arrivò in un momento cruciale dell’attualità vera, diede una mano a far crollare il muro, e fu un emozione grandissima, inspiegabile, una sensazione di vittoria. E di nuovo, pensare al nostro lavoro come qualcosa che può davvero far cambiare, in tutto e per tutto.

Se come attore sei uno che si espone, di te, invece, si sa molto poco, a parte qualche vera passione, tipo la fotografia. Come nasce?
C’andavo matto, la mia prima macchina è stata una Nikon, avrò scattato decine di foto. Ora sono chiuse in un cassetto, magari le tirerò fuori un giorno, realizzando un libro fotografico, chissà. Adoro circondarmi d’arte. Tutto si è ulteriormente amplificato in quell’anno a New York, ma ora se riguardo quelle immagini, luoghi, è incredibile, raccontano di me. La fotografia è qualcosa capace di sorprenderti.

Come mai proprio gli Stati Uniti?
Avevo un sogno, entrare all’Actor’s Studios. Ogni giorno andavo lì, fuori, osservavo, ma non mi decidevo ad entrare, nelle ultime due settimane sono rimasto senza soldi, dormendo con le valigie in strada. Beh, per farla breve, il coraggio l’ho trovato, ma serviva altro denaro, c’era la green card, insomma troppo difficile. Il caso ha voluto che, proprio in quel momento, su internet, lessi di un casting, in Italia, selezionavano persone, bisogna portare un monologo, in giuria c’erano Carlo Verdone, Lina Wermüller e Daniele Luchetti.

Cos’è successo?
Sono tornato, e tra settemila provini ho vinto. Mi è servito, pensai, prima devo dimostrare qualcosa in Italia, così è successo. Da allora nella mia testa, ciò che immaginavo impossibile, è invece capitato.

Qual sarà il passaggio successivo?
Voglio lavorare in America, e ci riuscirò, è uno dei miei obiettivi, non mollo, il sogno è ancora grande, andare là e aprirmi a un mondo internazionale.

Tra i tuoi modelli di riferimento, sui social, se ne scorge uno in particolare…
Heath Ledger sì. Recentemente, vedendo il documentario su di lui (I am Heath Ledger, ndr) mi ha commosso. Racconta del successo, di come lo ha buttato giù, eppure, contemporaneamente arrivava sul set sempre energico, propositivo. È un modello di riferimento, fenomenale, camaleontico, in tutto ciò che faceva, non ci sarà un altro come lui, è la persona che sento più vicino sia a livello umano che professionale.

Ledger era un personaggio onnivoro, tu?
Leggo di tutto, e vedo decine di pellicole, dai grandi classici a quelli più recenti. Dai 14 anni vidi, quando la serie di Romanzo Criminale, le esplosioni si sono ripetute, riuscendo a scoprire altri autori e titoli, Mummy di Xavier Dolan, Birdman, La dolce vita, Fellini, Colazione da Tiffany.. Amo scrivere, ho un libro pieno di appunti, idee, cinque anni fa è arrivata anche una mia sceneggiatura, quando potrò la tirerò fuori. Senza dimenticare la musica, come il protagonista di Summertime, ascolto di tutto, da Tupac Shakur all’indie pop, tipo i The xx. Compongo anche io, ci sono dei pezzi da parte, gli darò luce. D’altronde un attore dovrebbe essere artista a 360°, e non rimanere confinato solo in un ambito.

Non c’è un regista di cui ti piacerebbe ricevere un colpo di telefono?
D’istinto direi Stefano Sollima, mi farebbe fare qualcosa di diverso, e Matteo Garrone, lo adoro.

Ma se non avessi fatto l’attore?
Probabilmente mi sarei buttato sulla regia, piuttosto su altre sfumature di questo mondo. Il fatto di aver fatto, fin da subito, corsi e seminari è servito soprattutto a darmi la disciplina, ad arricchire, portandomi a conoscere ambienti, intellettuali, pensando in maniera diversa e radicalmente. Le opportunità, gli attestati di stima che sto ricevendo, mi ripagano oggi di molte difficoltà vissute nel passato, è difficile spiegare la soddisfazione che si prova, la recitazione è stata come un’ancora di salvezza, per questo voglio regalare emozioni alla gente.

Mai capitato di fare scelte che ti hanno portato da altre parti?
Il fatto di “sfuggire” da dove sono cresciuto, nella zona Mandrione, ad esempio, una delle prime borgate romane. Nella mia adolescenza ne ho combinate tante, ero davvero un ribelle, ma un giorno, però, mi misi di fronte a uno specchio, avevo 17 anni, piansi, e dissi “ora basta”. Dovevo andare dritto per la mia strada, evitare certe situazioni e vedere solo cose positive, in questo sono stato fortunato ad avere una grande donna alle spalle, mia madre, che ci riprendeva sempre col cucchiaio, come si dice. Non rimpiango nulla, le origini, ciò che sono stato, alla fine l’importante è sapere sempre quello che potrai diventare.