Giovani promesse: intervista con Riccardo Maria Manera
Courtesy of Francesca Marino

Giovani promesse: intervista con Riccardo Maria Manera

di Andrea Giordano

Ambizioni e passioni di un giovane attore, e figlio d’arte, Riccardo Maria Manera: vita, carriera, e la prossima sfida, quella di Vivi e lascia vivere, senza mai dimenticare la “sua” amata Genova.

A sei anni fu Incompreso, ma solo nella serie tv, accanto a Margherita Buy e Luca Zingaretti, poi, col tempo, ha capito che la recitazione sarebbe stata la via giusta, una forma d’arte da coltivare e arricchire di esperienze. Quel bambino, diventato oggi adulto “di razza”, si chiama Riccardo Maria Manera, ventiseienne talento del nostro vivaio attoriale, formatosi al Centro Sperimentale di Cinematografia, di fatto una promessa, chiamata a mantenersi ogni volta, attraverso scelte e ruoli, e proprio per questo interessante da osservare nella sua evoluzione.

Nato a Genova, la città, e la squadra (durante l’intervista, dietro di lui, c’è una sciarpa del Genoa non a caso) di cui rimane tifoso accanito, la stessa da cui ci parla, come tutti in isolamento, «pensare che ho firmato il contratto per la casa nuova, a Roma, il 10 marzo, il giorno prima del blocco a causa del Coronavirus.», e dove, può, torna. Non un principiante del grande-piccolo schermo, bensì qualcuno già capace di toccare gradualmente set diversi, dalla prima vera occasione, arrivata nel 2014 grazie a Nè Giulietta né Romeo di Veronica Pivetti, ad altri progetti, Il confineIl silenzio dell’acquaNon uccidere, o Immaturi, senza dimenticare Volevo fare la Rockstar, nei panni di Eros, un personaggio che, si augura, vorrebbe presto riprendere. Un ragazzo «che si è fatto da sé», grazie a idee chiare e valori da proteggere, e quell’occhio azzurro affinato, ereditato, racconta scherzando, dalla nonna croata, una delle tante profughe di Tito, originaria di Fiume, «una figura importante».

Adesso, però, la sua partita si sposta su un altro campo da gioco, Vivi e lascia vivere, serie tv diretta da Pappi Corsaro, in onda su Rai1 in cui potremmo vederlo a partire dal 23 aprile.

Cosa puoi raccontare del tuo ruolo?
La storia parla di riscatto e rinascita. È quella di una donna (interpretata da Elena Sofia Ricci, ndr), con tre figli, che nasconde un fatto importante, circondata da una famiglia che cerca di capire le scelte che sta facendo. Io sono Nicola, colui che è molto legato alla figlia maggiore, Giada. Il mio personaggio la accompagna nel percorso di riscoperta di questa madre, la aiuta a non prendere decisioni impulsive, la consiglia, studiano insieme, cerca di aiutarla a prendere le scelte migliori, è una sorta di grillo parlante.

Quando hai deciso di fare l’attore, era davvero il piano “A”?
No, assolutamente, non era neanche contemplato nell’alfabeto dei piani. Sono figlio di due attori di teatro, mio padre (il grande Dario, ndr) ha studiato alla Civica Scuola d’Arte Drammatica ‘Piccolo Teatro di Milano”, mentre mia madre (Enrica Carini, ndr) allo Stabile di Genova. Il percorso sembrava potesse essere quello, ma inizialmente non volevo, ho visto fin da bambino le sofferenze, i sacrifici, le fatiche che si sono sobbarcati, questo fin da quando ricordo, dalle elementari. Volevo diventare, invece, giornalista sportivo.

Come mai?
Sono un appassionato della squadra del Genoa, prima che del calcio (ride, ndr). È qualcosa di viscerale, non ereditata dai miei genitori, anche perché papà sarà andato una volta allo stadio. Ogni nostro tifoso ha un sogno, che è anche il mio, poter arrivare a raggiungere la stella, il decimo scudetto, non importa se succederà quando avrò 78 anni, o di più, basta che riesca a vederla cucita sulla maglietta.

La recitazione ha prevalso poi. Quando hai cominciato?
Vivevo solo da sei mesi, sentivo l’incombenza, la necessità di aiutare i miei nel sostenermi, alloraero scritto alla Statale di Milano, indirizzo Lettere Moderne, venivo da sei anni di Liceo Classico. Avevo bisogno, però, di tirare su qualche soldo. Mio padre mi consigliò di fare qualche foto, il cosiddetto portfolio, e mandarlo a qualche agente. Una di questi mi riconobbe, dai tempi di Incompreso, feci qualche provino, alcune pose. La consapevolezza l’ho avuta grazie all’opera prima di Veronica Pivetti, Nè Giulietta né Romeo. E poi una mattina mi sono svegliato e ho capito che non desideravo ripetere qualcosa di sentito o studiato all’università, ma dare una mia interpretazione delle cose.

Ci sei riuscito?
Mi considero uno che ha seminato, e ora sta raccogliendo, istintivo, pratico, preferisco sbagliare, e poi rifare subito, piuttosto che perdermi a parlare. La recitazione non è qualcosa che ho maturato subito, come detto mi ci sono ritrovo in questo ambiente, andavo all’asilo, ma già avevo alle spalle 200 repliche di spettacolo. La vedevo come una parte del percorso, ma non era una passione. Ora sono diverso, crescendo, non ho più la spocchia di prima.

Torniamo un attimo a Genova, la tua città. Quando il Ponte Morandi è crollato tu come l’hai vissuta?
Da vicino. Quel giorno mi trovato all’entrata di Genova Ovest, esattamente il 14 agosto di due anni fa, fui bloccato in macchina. Stavo andando a Milano per prendere un aereo e andare a Londra, per trovare un amico, ero in una pausa de Il silenzio dell’acqua. Mi vengono ancora i brividi. Qualsiasi genovese è passato da lì, dopo di allora mi sono venuti in mente dei flashback, e visualizzavo il Morandi sempre e comunque con qualcuno che faceva manutenzione, mi sono sempre chiesto “ma cosa stanno facendo”… La sensazione è ancora forte, ma per fortuna siamo abituati a rialzarci.

Ti è capitato di vivere altre situazioni simili?
In entrambe le alluvioni, nel 2011 e 2014, lì però sono stato angelo del fango e fiero di aver partecipato, spalando insieme alla gente. In quei momenti le gerarchie non esistono, ti trovi ad aiutare, da una parte, come successe, puoi avere l’ex capitano del Genoa, Antonini, dall’altro un signore anziano. Eravamo comunque tutti uguali, con un unico obiettivo.

A parte tuo padre, quali sono gli altri modelli a cui guardi, o che ti hanno lasciato delle tracce?
Anni fa girai un cortometraggio, Fino alla fine, fu molto rapido, ma intenso, grazie ad attori come Nello Mascia, Lino Musella e Vincenzo Nemolato, da ognuno ne ho tratto degli insegnamenti, un certo tipo di educazione e di guida. Poi a me piace la Carrozzeria Orfeo, quel tipo di teatro, che non preferisce essere sicuro, e invece sa azzardare. Sul cinema ho le idee chiare. Se parto dalla Major League americana, penso a Joaquin Phoenix e Leonardo DiCaprio. Grandissimi, che sanno scolpire i propri ruoli nei piccoli gesti, come si guarda, o saluta, mentre se ragiono al nostro campionato, direi Alessandro Borghi, questo dai tempi di Non essere cattivo.

C’è una storia che vorresti sperimentare, e finora è mancata?
Forse un emarginato, un outsider, capace di svelare dietro un certo di mondo, che ha qualcosa da dire e raccontare. Sto lavorando su un nuovo progetto, sei mesi fa, infatti, feci un provino, per interpretare un ballerino francese, sarà un film indipendente. È tutto fermo ovviamente, ma spero la macchina riparta presto.

Cosa ti interessa da spettatore?
Sono follemente innamorato di Christopher Nolan, e mi piacerebbe lavorare con Matteo Garrone. Non parliamo delle serie tv, da Breaking Bad, Better Call Saula Fleabag. Da qui ai prossimi cinque anni, mi piacerebbe ritrovarmi in un set internazionale, questo per poter assimilare un modo diverso e imparare. Studio e ricerco, credo soprattutto nella capacità di farmi illuminare da altre esperienze.

Come stai vivendo questa situazione di isolamento?
Leggo, ora ho tra le mani I baffidi Emmanuel Carrère, faccio un po’ di attività fisica, diciamo da allenamento pre-pugilistico, salto con la corsa, corpo libero, studio, recupero serie tv, e ovviamente film, ogni settimana ordino qualche Blu-ray, pieni di contenuti extra da vedere. In fondo ero già una persona che passava il tempo a casa, ma vorrei rivedere anche dei soggetti da sviluppare, idee, schizzi, non è detto che in futuro possano tornare utili.

In generale si dice che la musica scandisca le stagioni di una persona, ti ci ritrovi?
A 15 anni ascoltavo i System of Down, i Korn, i Pantera, ero in un periodo metal, poi mi sono, come dire, “addolcito” nei gusti. Oggi viro verso il rap o la trap francese, mi piace questa musicalità, senza dimenticare il cantautorato italiano. D’altronde io sono cresciuto a pane e Fabrizio De Andrè.

Generi diversi. Sei così pure nello stile?
Sono partito neutro, ero nero, non perché sfinisse, mi piaceva, dopo, per motivi vari, mi sono ritrovato a lavorare in un negozio di abbigliamento da skater, ne ho un po’ assimilato il look. Oggi preferisco essere casual, non metto abiti per apparire, ma solo perché me le senti davvero addosso. C’è un rito a cui non rinuncio, però, succede ad ogni compleanno: quello di autoregalarmi un capo di Etro, lo considero il giusto riconoscimento!