Anthony Hopkins

Anthony Hopkins

Mezzo secolo di carriera, di incontri e di successi gli hanno permesso di maturare una disincantata visione del mondo. Ce ne dà un saggio in questa intervista, tra ricordi di una vita straordinaria e considerazioni pacate sul futuro dell’umanità

di Elsa Fernández Santos

A 85 anni appena compiuti, Anthony Hopkins (Margam, Regno Unito, 1937) continua a essere sulla cresta dell’onda. Due anni fa ha vinto il suo secondo Oscar con The Father ‐ Nulla è come sembra, il film drammatico di Florian Zeller in cui l’attore britannico interpreta un anziano affetto da demenza e il cui sequel, The Son, vede una sua partecipazione, breve ma intensa. L’eterno Hannibal Lecter de Il silenzio degli innocenti, attore meticoloso e con una vera e propria ossessione per i dettagli, in età matura ha scoperto un filone che gli calza a pennello. Il nonno che interpreta in Armageddon Time – Il tempo dell’apocalisse di James Gray è uno dei personaggi più interessanti della stagione. Hopkins afferma di essersi ispirato a suo nonno, l’uomo che lo ha incoraggiato a diventare attore. Pieno di energia come nel video, diventato virale, in cui chiede con forza di «credere, credere e credere» in se stessi, l’attore si mostra ottimista nel suo pessimismo: «Non c’è vita senza speranza».

Nella sua vita ha assistito a numerose crisi mondiali. Pensa che il problema nasca dall’aver dimenticato il passato?

Credo che sia nella natura dell’uomo attraversare una crisi per poi dimenticarla. Purtroppo, troppo spesso scordiamo le lezioni del passato. Il problema del mondo di oggi è che non cerchiamo più un compromesso per riuscire a comprendere il punto di vista degli altri. Bisogna essere rispettosi, gentili e tolleranti nei confronti delle persone che non la pensano come noi. La vita è dura, la gente dimentica e l’istinto di sopravvivenza ci fa stare sulla difensiva e smettiamo di pensare.

Stiamo attraversando un periodo particolarmente critico?

Sì, ma credo anche che dobbiamo vivere senza mai abbandonare la speranza. Solo 60 anni fa, con la crisi dei missili di Cuba, il mondo era prossimo a una guerra nucleare, ma si è raggiunto un accordo. Credo che siamo arrivati a un punto in questa nuova crisi in cui c’è speranza, perché la speranza è l’unica cosa a cui possiamo aggrapparci. Torneremo all’ordine mondiale del 2018 e a una coesistenza pacifica. Altrimenti sarà la fine per il pianeta e per la civiltà umana. Anche se dubito che qualcuno sia così folle da porre fine a tutto questo. Siamo sopravvissuti alla pandemia; il mondo ha superato la Seconda guerra mondiale, Adolf Hitler e il suo Reich.

È questo l’atteggiamento che dobbiamo avere?

I cinici diranno che non serve a niente. Invece dobbiamo conservare la speranza. Se lo dimentichiamo, è tutto finito.

Mi risulta che da piccolo lei sia stato un pessimo studente. Si è rivisto nel personaggio di suo nipote in Armageddon Time?

Sì, c’è una certa somiglianza. Ero uno di quei bambini che definiscono “con sviluppo lento”. Forse la mia mente non era fatta per gli studi accademici. Ero anche molto solitario. Non avevo amici. Ma credo sia stata una mia scelta. C’era qualcosa nella mia natura che mi chiedeva di restare isolato. Ma avevo un lato creativo e a 17 anni decisi che ero stanco di essere chiamato stupido. Mi dissi: «Farò qualcosa. Non so come, ma diventerò un attore». Mio nonno, il padre di mia madre, mi ha incoraggiato fin da piccolo. Mi diceva: «Non ascoltare quello che ti dice la gente. Fai quello che desideri. Abbi fiducia in ciò che vuoi fare e ce la farai».


Trench Giorgio Armani, maglia Tom Ford

Si è ispirato ai ricordi che ha di suo nonno?

È stato facile da interpretare. Ho cercato di fare un lavoro semplice, che non risultasse troppo pesante. Sono molto felice di essere un attore, mi diverto interpretando dei ruoli e prendo la mia professione molto sul serio; lavoro duro, però cerco anche di godermela ed evito di stressarmi e rattristarmi.

È sempre stato così?

Beh, quando ero un giovane attore ero pieno di passione e ambizione. Ma quando invecchi, ti rendi conto che non è niente di che. Ci sono cose più importanti nella vita che essere un attore.

Dopo 50 anni di carriera ho l’impressione che lei abbia contribuito a collegare la tradizione attoriale britannica con quella statunitense. Pensa di essere a cavallo delle due scuole?

Ho imparato molto dagli attori americani, in particolare dalla vecchia generazione con interpreti come Spencer Tracy. La tradizione britannica è più legata al teatro e mi sento molto orgoglioso e fortunato di averne fatto parte. Ho lavorato con attori straordinari del calibro di Laurence Olivier, John Gielgud, Albert Finney o Jonathan Pryce. Recitare al loro fianco è stato per me un immenso piacere e un privilegio.

Ha citato Spencer Tracy. È l’attore che ammira di più?

Sì! Ma anche James Cagney, Bette Davis, Katharine Hepburn e Fredric March. Anche Dustin Hoffman è molto bravo, come Robert De Niro e Al Pacino. E Marlon Brando, naturalmente, è stato il più grande. Sono tutti attori straordinari.

Le piace ancora recitare?

Più che mai! Ora posso capitalizzare sul mio metodo di lavoro ed è più facile. Mi piace il processo d’imparare in fretta dialoghi e parole per poi analizzare e sezionare le battute, affinché risultino reali e naturali. È un processo che richiede tempo. Ma ho acquisito molta esperienza nel corso degli anni e conosco bene le scorciatoie. Ora entro rilassato sul set o sul palco.

C’è un segreto?

Il segreto della recitazione è ascoltare l’altro attore. È questa la chiave. Quando si ascolta veramente si genera una nuova coscienza e le parole si trasformano in un’energia comune.

Trascorre più tempo negli Stati Uniti o nel Regno Unito?

Vado dove mi dicono di andare! (ride). Se mi lasciassero scegliere, starei in Inghilterra. Amo lavorare lì. Ho già passato troppo tempo negli Stati Uniti.

La California non è più casa sua?

È diventata la mia casa ma non vivo a Hollywood, e ho pochi amici in questo settore. Conduco una vita tranquilla. Non sono molto socievole. Se devo uscire per fare il mio lavoro lo faccio, come questa intervista a una… icona! (ride).

Nei primi anni 90 ha girato Il silenzio degli innocenti e Quel che resta del giorno, due film che rappresentano un punto di svolta molto importante nella sua carriera.

Mi stavo impegnando molto, quando Il silenzio degli innocenti è diventato un fenomeno. Il mio approccio al personaggio è stato del tutto istintivo. La pellicola ha cambiato la mia vita e da allora ho avuto la possibilità di scegliere ruoli grandiosi, come in Quel che resta del giorno o Gli intrighi del potere – Nixon. Improvvisamente mi sono ritrovato a lavorare con registi come Spielberg, Coppola, Jonathan Demme o James Ivory. Ero – come si suol dire – in un buon momento. Può sembrare strano, ma sento di non potermi prendere il credito per nulla di ciò che ho fatto.

Sir Anthony Hopkins photographed for ICON by Charlie Gray.

Perché?

Non so la risposta, però so che pensarlo mi libera dal mio ego. È tutta fortuna.

Con The Father ha vinto il suo secondo Oscar, e non ha nemmeno partecipato alla cerimonia!

Recitare in questo film è stata un’esperienza meravigliosa ma non ho partecipato alla cerimonia degli Oscar né mi sono emozionato per il premio. Ricordo che quando ho ricevuto il copione ho pensato che si trattasse dell’opera di Strindberg, che ha lo stesso titolo. Poi ho letto la sceneggiatura, che è un’opera originale del regista Florian Zeller, e l’ho trovata straordinaria.

Com’era da giovane?

Ero più perso che mai (ride). Ti alzi la mattina e sopravvivi. Tutti indossiamo delle maschere.

Uno degli aspetti positivi dell’invecchiare è che si abbandonano le maschere, vero?

Sì, non ce n’è più bisogno. Bisogna essere presenti per le persone. Essere gentili e divertirsi. Sfruttare il tempo al meglio.

Joanne Woodward diceva che il pianista ha il suo pianoforte, la ballerina di danza classica le sue scarpette, ma l’attore ha solo se stesso. Sembra inevitabile per un attore dover affrontare i problemi dell’ego.

Non si tratta solo di ego, perché tutti ne abbiamo uno e perdipiù è proprio l’ego che ti motiva ogni mattina. Il problema è quando l’ego inizia a dirti che sei speciale, che sei diverso. L’ego è una struttura molto potente. Ha due personalità. Una è quella che ti rende altezzoso, ti fa pensare di essere Dio, l’altra è quella che ti permette di andare avanti. L’ego può essere molto distruttivo, lo si vede nel cinema e nella politica. Ma quando raggiungi una certa età, e le ossa iniziano a scricchiolare e le spalle a dolere, l’ego ti dice: «Molto bene, ora calmiamoci, rilassiamoci. Non c’è nulla di così importante”.

In che senso non c’è nulla di così importante?

Beh, la vita è importante. C’è molto dolore e sofferenza nel mondo. E molte difficoltà. La gente va a lavorare e lavora sodo per permettersi una vacanza di due settimane. Ma io penso alla mia vita e mi chiedo: «Cos’ho fatto davvero?». Non lo so, ma non posso permettermi di prendermi sul serio quando ci sono persone che hanno capacità che io riesco a malapena a comprendere. Medici, ricercatori, persone che sanno costruire un aereo o le tubature di una casa. Gente che sta scavando per strada. Queste sono le persone che fanno andare avanti il mondo.

Ha perfettamente ragione, ma ci sono anche attori, scrittori, pittori. Persone che con il loro lavoro ci fanno trascendere la realtà, sognare, vivere vite che non avremmo mai potuto vivere. Non è così importante come il lavoro di un medico, ma rende la vita migliore.

Sono assolutamente d’accordo. Beethoven, Mozart, Michelangelo, Van Gogh o Bob Dylan ci elevano.


Giacca e maglia Giorgio Armani

C’è un ruolo che avrebbe voluto interpretare e non ha potuto?

No… beh, mi sarebbe piaciuto interpretare Amleto, ma sono troppo vecchio (ride). Non mi sono posto degli obiettivi; in realtà cerco di liberare la mia mente da qualsiasi desiderio. È meglio non avere aspettative. Non chiedere nulla, non aspettarsi nulla e accettare tutto: questo è il mio motto. È un modo per mettere da parte le insicurezze, accantonarle. La paura non è una buona compagna.

Per un attore è difficile non avere paura, vero?

Non so perché. La paura è una fantasia. Se sali sul palco, temi quello che penseranno di te? Chi se ne frega! Se sei nervoso è perché vuoi diventare Gielgud e avere successo. Ma devi controllare questo aspetto e dirti: «Bene, basta così. Si va in scena. Azione, si gira!».

Con l’avanzare dell’età pensa a tutte le cose che ha vissuto e sperimentato? Sente che questo le dà un potere enorme?

Ti dà una sensazione di pace. Credo che invecchiando sai meno cose. Quando ero giovane sapevo tutto. E adesso? Niente. Presumo che non capire nulla faccia parte della fase finale della vita. Intrattengo lunghe conversazioni con un amico sul significato di tutto questo, sull’essenza del tempo. Mi affascina, perché nessuno è in grado di spiegare cos’è il tempo. Semplicemente non ha senso e mi fa dubitare di tutto. In fin dei conti sono solo un attore e non so niente di niente. A malapena riesco a scendere dal letto la mattina.

Sir Anthony Hopkins photographed for ICON by Charlie Gray.

Ha qualche progetto in mente?

Sì, in futuro reciterò in tre film. Uno è su Sigmund Freud, anche se non è del tutto confermato.

Interpreterà Freud?

Sì! È molto interessante.

Quando si prepara per un personaggio storico, come Freud, legge molto al riguardo, si documenta?

Sì, ma senza esagerare. Non sono un lettore veloce, né un intellettuale. Leggo, mi faccio venire delle idee e le invio al regista via email o qualcosa del genere. Niente di particolarmente profondo: “Posso provare questo?” “Facciamo quest’altro”. Ricordo che quando stavo preparando Re Lear non riuscivo a addormentarmi pensando a una scena nella quale dovevo sollevare il cadavere di mia figlia Cordelia. Avevo perso forza fisica e, nonostante sia robusto, non sarei riuscito a sollevarla. Così proposi di mettere il cadavere in un sacco. Il regista pensò che fosse un’idea spietata e terribile, ma così si comprendeva l’essenza della morte. Non è romantico ma spaventoso, perché, nonostante l’amore e la gloria della vita, c’è un cadavere che si sta decomponendo in un sacco. E ha funzionato.

Nella foto di apertura Anthony Hopkins indossa una maglia Giorgio Armani

Photos by Charlie Gray, Styling by Nono Vázquez, Grooming: Sonia Lee @Exclusive Artists Styling assistant: Joanna Marie Beaumont