Giovani promesse: Federico Russo, istinto e determinazione

Giovani promesse: Federico Russo, istinto e determinazione

Una vita d’attore, quella di Federico Russo, cominciata fin da bambino, che nel tempo lo ha portato a diventare grande, tra cinema, tv e scelte personali. La sfida, ora, va in scena su piattaforma, tra i protagonisti di “Curon”, la nuova serie supernatural in onda su Netflix, prodotta da Indiana Production, diretta da Fabio Mollo e Lyda Patitucci.

Courtesy of Netflix
di Andrea Giordano

Cultura, appartenenza e realtà di quartiere, il Bravetta di Roma, dove tutti lo conoscono, e sanno veramente chi è. Lui è Federico Russo, ventitreenne attore italiano, ma già “veterano” da tempo nel piccolo schermo, calcato fin da tenera età, e visto in progetti come Incantesimo 7 e 8, Provaci ancora prof!, L’isola di Pietro, Scomparsa, e I Cesaroni. In attesa di vederlo prossimamente al cinema, grazie a Ernesto, opera prima di Alice De Luca e Giacomo Raffaelli, incentrato sullo smarrimento giovanile, ora è tra tra i protagonisti della nuova serie di Netflix, Curon, prodotta da Indiana Production, diretta da Fabio Mollo e Lyda Patitucci. Un prodotto tutto italiano e dalle tante anime, come l’hanno definita gli sceneggiatori, supernatural, horror, thriller, coming of age, fantasy, in cui riveste i panni di Mauro che, insieme alla sorella gemella Daria, si ritrova a convivere nei bellissimi scenari della Val Venosta e il Lago di Rèsia, avvolti da leggende e misteri. Un viaggio di crescita e introspettivo, come quello che ha voluto condividere con noi.

Curon è una sorta di “rinascita” professionale: quanta pressione hai sentito in questi anni?
Sentivo la pressione di dover mantener vivo questo lavoro, ma anche la paura di poterlo perdere, perché è la mia passione. Inizi, e poi ti chiedi «che tipo di attore voglio diventare?» o «quale persona voglio essere?» Molti sopravvivono grazie alla tv, è vero, ma io ho sempre desiderato, invece, non accontentarmi, diversificandomi per riuscire a diventare un giorno un interprete serio, completo, che può dire qualcosa.

Arrivi da un periodo “sabbatico” di astinenza dai social, come mai?
Cominciando da bambino, e lo dico senza arroganza, ho vissuto quello che c’era prima e dopo i social, e il fatto che un attore possa essere classificato come influencer, blogger o youtuber non mi piaceva, credo ci siano elementi ben distinti. Le nuove generazioni, quelle che studiano nelle accademie, al Centro Sperimentale, alla Silvia d’Amico, devono iniziare proprio da lì. Alcuni credono fermamente in ciò che fanno, ma altri no, e pensano ad altre piattaforme per promuoversi. Io, al contrario, me ne sono distaccato da un anno, partecipando a progetti indipendenti con dei ragazzi provenienti dal Rufa (Rome University of Fine Arts), l’ho fatto per poter essere libero di sperimentare e crescere.

Quanto c’è di tuo nel personaggio?
Vengo da una famiglia composta da cinque fratelli più piccoli, sono cresciuto con mia madre e mio zio, nessuna figura paterna. Eppure siamo uniti, anzi se c’è un problema so che posso contare su di loro. La cosa che mi manca, rispetto a Mauro, è il saper andare oltre i pregiudizi, lui vede e capisce le persone, sa intercettarne le difficoltà, io su questo aspetto sto cercando di migliorare.

Il fatto di essere cresciuto in fretta, però, ti ha portato bruciare delle tappe in termini responsabilità?
È vero. Mi sono avvicinato a dei problemi da adulto più velocemente, occupandomi di faccende che magari da giovanissimi non ti toccano, eppure a 18 anni compiuti decisi di andare a vivere da solo e affrontare gli impegni quotidiani, bollette, tasse, assicurazioni, senza chiedere niente a nessuno. È come se avessi vissuto due vite parallele, da un lato il bambino, a cui mia madre non ha fatto mancare mai nulla, i giochi, gli amici e il set, imparando come funziona la macchina, rimanerci dentro, diventando maniacalmente puntuale e preciso.

Nella serie, però, sei riuscito anche a “sporcarti” quel tanto che basta…
Talvolta, lo si studia, nella costruzione dei personaggi, c’è un “bisogno” da portare, e allora ci si aggrappa a memorie emotive, elementi, ricordi, tristi o felici. A me è servito, in alcune scene, e sono cose che ho attraversato, la perdita, la solitudine, l’insicurezza, l’ansia da prestazione, o di non farcela, sono arrivato a toccare dei punti forti, la serie l’ho vissuta in egual modo come una forma di esperimento nell’evolvere qualcosa di personale. Mi sono spogliato delle debolezze, dei miei freni, e ho finalmente dato.

Sconfiniamo un attimo sulla moda e lo stile, lì dove ti posizioni?
In una zona confort e casual, prediligo infatti brand come Zara, H&M, le giacche di pelle, un po’ ispirato da James Dean o Marlon Brando ne Il Selvaggio. Li ho davanti gli occhi e riescono ancora ad ispirarmi, a eccezione del loro modo di rapportarsi con la stampa. Io, al contrario, me l’ha insegnato mia madre, ho sempre portato avanti un profondo rispetto nei confronti di qualsiasi professionista e lavoro.

Cosa non era passato finora al pubblico, e che magari ti ha infastidito?
Il fatto, lo ripeto, di essere etichettato, di essere considerato la “moda di quel momento” il solito fenomeno che piace alle ragazzine, o è eccessivamente popolare. No, non sono così. Mi considero semmai una persona privata, che tiene ai propri spazi, gli affetti, le amicizie, e li protegge, per questo non amo mostrarmi più di quanto dovrei. La recitazione ti porta a dover convivere con una parte narcisistica, ma preferisco parlare attraverso fatti concreti e un lavoro oggettivo.

Proviamo a fare ordine nei tuoi riferimenti: uno, anche per Curon, è Joaquin Phoenix (in The Village), ce ne sono altri?
Alessandro Borghi. Ma entrambi , in generale, hanno dei talenti che, un giorno, crescendo, vorrei trovare in me stesso. Phoenix è di una bravura incredibile, è avvolto da un’aura misteriosa, oscura, dovuta al suo passato, non facile, devastante per certi versi, a quell’aspetto di vulnerabilità, così potente. Alessandro, invece, rappresenta il carisma, in Diavoli è stato strepitoso, per come è riuscito a trasmettere, anche in inglese. Mi piacerebbe alternare questi duplici aspetti, il dover e poter rimanere nella mia sfera privata, sapendo che comunque la società impone una certa legge dell’immagine, e il saper raccontare cose serie, mostrando bravura e concentrazione.

Non ti vedresti in un mercato estero?
Sarebbe un sogno. L’idea di fare il passo esiste, magari in Francia o in Inghilterra, per questo adesso voglio perfezionare l’inglese. Amo il cinema di Xavier Dolan, attori come Vincent Cassel, il loro modo di porsi, certe sottrazioni, giochi di sguardi, ma queste culture cinematografiche hanno sempre fatto parte del mio percorso.

Qualche idea, magari, di cimentarti dietro la macchina da presa?
C’ho pensato sì, e molto, ma non mi sento di possedere ancora i mezzi per potermi esprimere.

C’è un, o una, regista con cui vorresti lavorare?
Valeria Golino. Mi ha sempre dato l’idea di una persona capace di toccare determinate corde, di spezzarle, riuscendo a far emergere parti oscure, che non riusciresti mai a tirar fuori. Da attrice, poi, trasmette, una sorta di tremore dell’anima. Adoro gli intimisti, se non si è capito, lei, Jude Law, Margherita Buy, Eddie Redmayne.

Nel tuo bagaglio culturale, oltre a loro, chi troviamo?
Sono partito da piccolo con il teatro, Goldoni, Romeo e Giulietta, Shakespeare, poi dai Cesaroni in avanti, ho abbracciato racconti di scrittori come Stephen King, Dostoevskij, Herman Hesse, Paulo Coelho. Da poco mi sono avvicinato a Roberto Saviano, leggendo La paranza dei bambini e un Bacio feroce, volevo capire la sua scrittura, la durezza di quei personaggi, un aspetto che mi manca, ma che vorrei se dovessi interpretare un criminale o un cattivo. Mi piace organizzare un set dietro l’altro di film indipendenti, adesso abbiamo riadattato Le notti bianche, insieme a due ragazzi, vorremmo farlo girare, stiamo cercando fondi, in questo senso abbiamo sentito anche Matteo Rovere.

Prima parlavi di solitudine e di ricerca di una tua identità. Cos’hai scoperto durante gli ultimi mesi?
C’è una cosa che mi ha riappacificato col lavoro. Se prima avevo il timore di dovermi sentire accettato dal pubblico e dalla critica, ora non più. Un grande mentore come Alessandro Tedeschi mi ha trasmesso un insegnamento cruciale, ovvero “fai qualcosa per passione‘. Sembra assurdo, eppure la inseguo, perchè con quella si può davvero arrivare a certi livelli ed essere felice. La bravura non arriva dal premio in sè, ma dalla tua capacità di migliorare, di crescere, di essere sempre curioso, e di lasciarti alle spalle le critiche negative e positive.

Che obiettivi ti poni adesso?
Sinceramente? Creare a mia volta una famiglia normale, tranquilla, e poter vivere di questo mestiere. Ora l’ho capito, vorrei migliorare e proseguire, senza pensare, per forza, a dover inseguire a tutti i costi dei riconoscimenti

Quindi alla fine Federico vuole essere più bravo o maledetto?
Per il momento preferisco fare il bravo (sorride, ndr).