Graffi e carezze, conoscenza e sensibilità, tradizione e tecnologia. Da un’orchestra di artigiani, in un mix di toni bassi e acuti, nascono i mocassini col morsetto. Unici, come i divi che li portano da 60 anni.

Dire stabilimento o fabbrica è un ingiusto sgarbo alla realtà. Anche il termine laboratorio, più algido ma meno ingeneroso, non descrive né cattura il senso del luogo. Perché il mocassino con il morsetto di Gucci, icona indiscussa di disinvolta leggerezza, nasce in stanze piccole e ambienti ampi che hanno il metodo e i tempi lenti dell’arte: si inizia con scultori che raschiano, puliscono, lisciano e scavano simmetrie in tante sfumature di uno stesso modello; poi, oltre una porta che sembra un sipario, ecco musiciste che suonano con ago e strappi secchi di filo, mentre pittrici disegnano riflessi, colori e ombreggiature sulle pelli con tamponi di cotone. Tocchi di grazia che a un tratto si irruvidisce, chiede aiuto alla forza per bloccare la forma nel suo aspetto finale. Inizia allora un tango di chiodi e di martello, di pinze e di colla, di graffi di carta abrasiva. Un coro di mani al servizio del comfort e dell’eleganza dei piedi.

Siamo a Monsummano Terme, vicino Pistoia, dove Gucci realizza un frammento importante della sua identità. Un elemento di stile ben riconoscibile che ha sedotto Roger Moore, Clark Gable, Alain Delon, Dustin Hoffman e, più di recente, Matt Damon e Leonardo DiCaprio: selezione breve di un elenco lungo di nomi celebri, che del mocassino hanno apprezzato la fusione di armonie. Tra morbidezza, flessibilità e durabilità estrema. Tra la cultura americana di una vita in movimento e un made in Italy che della fissità fa invece un vanto perché sigillo di cura artigianale.

Muoversi a memoria  – Equilibrio che è tradizione e consuetudine in questo borgo toscano punteggiato di piccoli calzaturifici a gestione familiare. «Gucci, d’altronde, va dove c’è il know how», fa notare Alessandro, coordinatore del grande atelier aperto nel 2001. «L’unico», aggiunge, «ad avere un formificio interno che consente di mantenere un dialogo costante tra designer e artigiani. Di abbinare estro e competenze tecniche tramite un linguaggio comune».

Così nasce la “Collezione 1953”, pensata dal direttore creativo Frida Giannini per celebrare a dovere i primi sessant’anni del fortunato mocassino. Un traguardo grande e tondo che trasforma la spinta del passato in forza propulsiva, che aiuta a non fermarsi, ad ampliare sempre più le combinazioni di colori e materiali. Ci sono i sempreverdi, dal coccodrillo al pitone, dallo struzzo al camoscio. Ma c’è anche il “Betis Glamour”, che ha il tocco tenue di una carezza e arriva da poco lontano: dal polo conciario di Santa Croce, sempre qui in Toscana. Neutro, trattato naturalmente, assecondando quella vocazione verso la sostenibilità che è diventata un altro faro in casa Gucci. Un segno di rispetto che poi è lo stesso tributato al savoir-faire, a un procedimento che mescola ritualità e pragmatismo, sapere e mestiere.    

Quello di Francesco, per cominciare, il responsabile della modelleria dell’uomo elegante e con i galloni di diplomatico conquistati sul campo. È lui, assieme a quelli che siedono intorno a lui, a dover trovare il giusto compromesso tra la creatività dell’ufficio stile e la necessità di plasmare una scarpa che sia comoda e indossabile per il cliente. Esaltando le due esigenze senza snaturarne nessuna. Si parte da una prima forma in legno, si avanza per sottrazioni e addizioni: raspe per limare i volumi, stucchi per aumentarli, finché non si raggiunge la perfetta base di partenza. Uno scanner 3D la trasporta in un database digitale, un tornio la riporta nel mondo fisico stavolta in una sagoma di plastica. Francesco lavora con matita, gomma e taglierino, disegna le linee di stile su una carta adesiva che prima ha applicato tutto intorno alla forma. Si muove a memoria, ubbidendo a riflessi automatici, sicuri, fluidi, quasi liquidi. Tentenna solo quando gli domandiamo cos’è che conta di più, se l’occhio o la mano. Fa uno sguardo perplesso, allunga un sospiro, finché se la cava nel miglior modo possibile: «Bisogna essere precisi al decimo di millimetro», risponde. «Dunque penso sia un talento naturale».

Poi, la caserma –  Le tracce sulla carta vengono staccate dalla forma e adagiate su un cartoncino per far guadagnare loro sostanza. È seguendo questa e le altre tessere del puzzle che verrà tagliata la pelle con un procedimento minuzioso che è un altro capolavoro di manualità. Si usa il «forò», utensile dalla punta intercambiabile, mentre un’altra punta e un piccolo martello servono ad aprire piccoli buchi nella tomaia che saranno il percorso della cucitura a mano. Le postazioni sono tante, le fasi si moltiplicano, ciascuna ha addosso un nome e, dietro, un talento specifico: l’equalizzazione, rubata al vocabolario della musica, che serve ad assicurarsi che ogni parte abbia lo stesso spessore; la pretamponatura, che toglie il primo pallore alla pelle e la veste di abbozzi di colore; i rinforzi, che raddoppiano la tenuta del mocassino senza sacrificarne la leggerezza.

Affari e specialità più di donne, fin qui, finché non si arriva in manovia, la zona in cui avviene il montaggio della scarpa. Il responsabile dell’area industriale si chiama Enrico, ha 60 anni, il suo mestiere lo fa da 45 e ha tutte le dita che sono un monumento: scavate dall’esperienza, terreno aspro di dune, piccoli fossi e improvvise collinette. Basta guardarle per capire perché a un tratto l’atelier diventa una caserma. Si ricorre a lampi di violenza per stirare la pelle con un martello, eliminando grinze e imperfezioni; occorrono acuti di potenza per fissare la forma con i chiodi, tenendoli tra i denti e rigirandoli in bocca prima di assestarli nell’attimo giusto; servono muscoli per chiudere il morsetto, chiaro riferimento all’immaginario equestre del brand, stringendolo con le pinze.

«Il punto vero», osserva Enrico, «non è però usare la forza, ma saperla dosare. Non stiamo lavorando con pezzi di lamiera, ma su pellami delicatissimi». Qui si accarezza anche quando si percuote, c’è leggerezza persino in un colpo secco. «Non solo», aggiunge, «altrettanto fondamentale è che le linee siano rispettate al 101 per cento».

Un’ossessione, la sua, espressa in valore percentuale, che nelle parole e durante le ore lavorative ricorre più di una volta. Perché mettersi in gioco è affare quotidiano tra «made to order» e «made to measure»: tra le personalizzazioni più semplici, variazioni di materiali e colore, fino a quelle totali, ovvero le scarpe costruite ad hoc per questo o quel cliente.

Mai uguali –  A Monsummano entrano gli ordini da tutto il mondo ed escono con una timbratura in oro e argento con le iniziali di celebrità, personalità del mondo della moda, della politica o di chiunque sappia iscrivere il lusso al circolo del buon gusto. Ma nessun mocassino, non importa se sia su misura oppure no, sarà uguale a un altro: ognuno avrà una sfumatura, un tratto, un piccolo elemento che lo distingue in mezzo a mille. Il merito è tutto del procedimento artigianale, ma una grossa fetta se la prende il finissaggio: la punta della scarpa, il tallone, i dettagli di stile vengono invecchiati a mano tramite tamponi di cotone e cere con tonalità più scure del pellame. L’effetto è a volte tenue, altre meno sfumato, comunque il risultato che si calza è un pezzo unico.
«Scarpa più bella di questa non c’è», dice non un manifesto pubblicitario d’antan ma Pietro, 27 anni, uno dei tanti volti giovani scelti da Gucci per tenere in piedi la tradizione. Pietro si è formato a lungo, ora sfoggia il privilegio di sentirsi già a un punto di arrivo, di essere custode di un’eccellenza che, da sola, basta come garanzia per il futuro. Qualcosa di cui, anche fuori da queste mura, non è difficile intuire l’importanza: «Sì», ammette, «i miei amici un tantino invidiano il fatto che lavori qui». Impossibile biasimarli, a pochissimi capita di vedere il proprio lavoro andarsene a zonzo per un set di Hollywood, calpestare le stanze private di un primo ministro o stravaccarsi al sole di una terrazza che guarda il mare calmo di Cannes. In casa Gucci, però, succede da tanto. Capita dal 1953, da sessant’anni esatti, con uno indimenticabile nel mezzo: il 1985, data dell’ingresso del mocassino nella collezione permanente del Metropolitan Museum of Art di New York. Arte, per l’appunto. E non esiste che un modo per definire chi la fa.

Testo: Marco Morello

Foto: Chiara Mirelli

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