Il mito di Nike secondo lo Steve Jobs del running. Collezionista di oggetti e idee folli.

Mark Parker ha vissuto il sogno yankee: passare dalla povertà alla ricchezza con quello spirito positivo al quale solo gli americani credono davvero fino in fondo. Alcune persone, affettuosamente, lo chiamano “lo Steve Jobs dello sport”: un personaggio la cui vita è stata la classica storia di successo americana, degna di un Abraham Lincoln, o magari di un Calvin Klein. Parker, infatti, è cresciuto in una famiglia modesta, ed è riuscito a raggiungere il successo grazie al duro lavoro, a un pizzico di fortuna e alla giusta dose di ostinata eccentricità, al punto di diventare un personaggio di spicco nel proprio campo e un uomo ammirato da tutti i colleghi.

La sua storia è quella di uno yankee pieno di passione per il suo hobby (correre, e rendere sempre migliore l’attrezzatura per farlo), che inseguendo i suoi interessi finisce per mettere assieme un know-how decisivo per la nascita di un nuovo, gigantesco business. Un intreccio di talento, ambizione e tempismo che l’ha portato dall’abbandono degli studi universitari a diventare il terzo amministratore delegato del più grande marchio sportivo del mondo: la Nike.

Ho incontrato Parker a metà marzo a Barcellona in occasione del grande progetto estivo della Casa: il lancio della scarpa Magista, una combinazione piuttosto rivoluzionaria di calza e scarpa da calcio. «È l’avanguardia in termini di vestibilità, design e presa sul terreno», ha sottolineato Parker, in un discorso così convincente da farlo sembrare “evangelico” ad un pubblico di giornalisti sportivi e cultori della moda venuti da tutto il mondo. «L’intero modus operandi di Nike è l’innovazione tecnica, sebbene il marchio utilizzi regolarmente gli atleti per certificare che ogni nuovo prodotto sia migliore del precedente», dice Parker. Pochi minuti prima, il centrocampista del Barcellona Andrés Iniesta aveva cantato le lodi della Magista davanti a una folla di addetti ai lavori.

Parker di frequente è associato a Steve Jobs. E in effetti nei modi gli somiglia: utilizza con assoluta disinvoltura il suggeritore elettronico, per esempio, ed è pienamente a suo agio sul palco. A Barcellona si è presentato davanti a un triplo schermo gigante mostrando un montaggio delle celebri calzature della Casa. Sembrava quasi il revival di un incontro di preghiera, tanta è la devozione e il rispetto di Parker e del suo staff per il Dna Nike.
Parker, tra le altre cose, è stato cruciale nel creare un solido rapporto con stilisti e brand d’avanguardia, a partire dal giapponese Undercover per arrivare a Riccardo Tisci di Givenchy. Tisci ha da poco presentato un’edizione speciale delle Nike Air Force, con un taglio molto alto e il baffetto della Nike inclinato in modo bizzarro, a un prezzo di 320 dollari al paio. «Riccardo è profondamente immerso nella cultura sneaker: cioè la cultura dello sport che incontra la moda», spiega Parker. «La sua innata sensibilità, le sue intuizioni, sono interessanti per noi. Questa è la ragione per cui stabiliamo questo tipo di collaborazioni! Anche se, mi creda, ci sono più designer che bussano alla nostra porta pronti a lavorare per noi che non viceversa», conclude Parker. È indubbio, a suo avviso, che le “prestazioni e lo stile di vita” dei prodotti che Nike da sempre sviluppa avendo come riferimento gli atleti influenzano i designer di moda.

Parker è nato nel sonnolento porto di Poughkeepsie sul fiume Hudson. Mentre seguiva i corsi di Scienze politiche alla Penn State, dove diventò un corridore professionista e cominciò, da atleta, a mettere mano alle sue scarpe da corsa. «Ero intenzionato a diventare un veterinario, per la verità. Ma sono stato costretto a fare qualche inversione di marcia, diciamo così. Il design delle calzature si è presentato nella mia vita e ha preso il sopravvento. Avevo cominciato a modificare le mie scarpe già prima di venire a lavorare da Nike – o, per meglio dire, di iscrivermi a quella che io chiamo la scuola di design Bill Bowerman», dice Parker, riferendosi all’allenatore di atletica che ha fondato Nike assieme all’imprenditore Phil Knight nel 1964.

Presi allora a cambiare le suole interne ed esterne, ad aggiungere diverse superfici che funzionassero meglio per me. Non erano scelte ispirate da un qualche obiettivo di business, ma dettate dalle mie esigenze personali. Ho sempre avuto interesse per il marchio Nike, per questo indossavo molti loro prodotti. A un dato momento ho incontrato qualcuno che lavorava alla Nike e mi hanno offerto un posto di lavoro

ricorda Parker, ancora oggi designer instancabile e collezionista d’arte, in particolare pop e underground, versatile e curioso. Durante la sua ultima visita in Europa, ad esempio, si è recato a Parigi per salutare il suo vecchio amico Robert Crumb, il fumettista underground creatore dell’irriverente cartoon Fritz The Cat: il primo film d’animazione a incappare nella censura americana. Nei suoi riguardi usa belle parole dal gusto francese: «In Robert c’è una certa cura estetica, una spiccata sensibilità al gusto e allo stile che non si può che ammirare».

Attualmente, il 58enne Parker corre poco, preferendo passeggiare, andare in bici o gironzolare – il nuovo esercizio di agility maschile in voga a Hollywood. Ritiene che Michael Jordan sia il più significativo ambasciatore di Nike, essendo stato il primo atleta a sviluppare prodotti firmati davvero caratterizzati da un punto di vista espressivo, che hanno dato una nuova direzione al basket, quindi a tutti gli altri sport.
Nel calcio il suo idolo è ancora Ronaldo, che è arrivato quando Nike era ancora agli albori in questo sport. Racconta: «Ronaldo aveva esigenze molto particolari. Era un giocatore massiccio e aveva bisogno di scarpe che lo sostenessero, dando supporto al piede all’interno e ottimizzando la sua prestazione e stile di gioco. Per lui nacque la Mercurial. Una scarpa rivoluzionario a quel tempo, dal design super leggero ma con un notevole rinforzo all’interno e dal grande impatto visivo», spiega Parker, che conserva ancora il primo paio in assoluto di scarpe di Ronaldo nel suo ufficio al quartier generale di Nike, a Bowerman Drive, Beaverton, Oregon. «Quando Neymar è venuto in visita, le ha raccolte e ha chiesto: e queste cose sono? Così gli ho raccontato la storia, che non conosceva, e la cosa lo ha molto colpito», sorride l’amministratore delegato, che preferisce i marchi americani come Tom Ford per le occasioni pubbliche, ma indossando rigorosamente scarpe da ginnastica Nike ai piedi. Il suo sogno per la Coppa del Mondo in Brasile, ovviamente, è che il giocatore che segnerà il gol vincente della finale lo faccia colpendo il pallone con una Magista.

Dopo essere stato assunto da Nike come designer, Parker ha lanciato una serie di sneaker molto apprezzate dai fans, dalla Air Drift al progetto HTM fino ai design personalizzati per tutta una serie di celebrità: da LeBron James a Kanye West. Sotto il suo regno, l’azienda è cresciuta fino a diventare una compagnia dal fatturato di 25 miliardi di dollari, mentre il suo compenso annuo si aggira attorno a una somma a dodici cifre, facendo di lui uno dei cento dirigenti meglio pagati degli Stati Uniti. Ma come considera la concorrenza europea di Puma e adidas?
«In Nike ci facciamo condizionare meno dalla tradizione – siamo focalizzati sull’innovazione e sulla creazione di qualcosa di migliore piuttosto che sull’evoluzione di prodotti preesistenti. Magista è un buon esempio di ciò che intendo per rompere gli schemi», dice, prima di cenare nella casa di Gaudì, con il catering di fama mondiale dei Roca Brothers. «E comunque non posso parlare male di altri, ma quando non sei davvero ossessionato dalla prestazione, è difficile farsi spazio ed emergere. Oggi i consumatori hanno tanta scelta, tutto è digitale e ultraconnesso. Quindi, se non sei il migliore, o almeno tra i più bravi, non sarai mai sulla cresta dell’onda». 


Foto: Steve Benisty