Gucci Revolution
(Photo by Vittorio Zunino Celotto/Getty Images )

Gucci Revolution

di Fédéric Martin-Bernard

La rivoluzione estetica di Alessandro Michele da Gucci

Mi ricordo come se fosse ieri di questo incontro quasi confidenziale in un grand hotel di Milano. Era il 16 gennaio 2015. Avevo avuto appena il tempo di posare le valigie, di ritorno dal Pitti Uomo di Firenze. C’era un’emergenza: l’illustre maison Gucci tremava. Il ceo era stato silurato poco prima delle feste. Dopo di lui, rientrata dalle ferie dopo l’Epifania, è toccato a Frida Giannini dover lasciare il posto di direttrice creativa che occupava da un decennio. Il mio referente responsabile delle comunicazioni del marchio era alquanto imbarazzato da questa situazione di crisi e, al contempo, aveva un messaggio importante da trasmettere: la situazione era sotto controllo, lo studio Gucci era all’opera giorno e notte e la sfilata uomo autunno-inverno 2015-2016 avrebbe avuto luogo come previsto entro 72 ore. In che modo? In quali proporzioni? Grazie a chi? Purtroppo non poteva dire di più.

Tre giorni dopo, gli strapuntini in velluto rasato che giornalisti e acquirenti professionali erano soliti ritrovare a ogni sfilata erano stati rimossi dalla consueta sala, attigua al Diana Majestic. Il pubblico era stato invitato a sedersi sui gradini, direttamente sulla moquette, come per prepararlo a una “tabula rasa” a cui l’industria del lusso poteva essere avvezza in questi anni 2000, allorché si rendeva necessario rilanciare l’attività di una grande maison. D’altronde, le cifre di Gucci non erano poi così terribili. Semplicemente, le collezioni mancavano di “sale”. Da anni si succedevano senza sorprese, venivano imbastite in base al canovaccio stabilito da Tom Ford, il precedente direttore creativo, che aveva tenuto le redini della maison per dieci anni a cavallo dei due secoli. Frida Giannini conosceva bene il quadro, avendo lavorato per due anni al fianco dello stilista texano sulle linee accessorie, prima di succedergli come direttrice creativa. I suoi collaboratori – questo misterioso studio all’opera 24 ore su 24 dal ritorno dalle festività – erano pratici del canovaccio, tanto da poterlo seguire perfettamente alla lettera anche in situazioni di emergenza. Sapevano pure prenderne le distanze, per poi ritornare immediatamente alle radici dell’illustre maison.


Alessandro Michele (1972). Photo by Magnum Photos

Alla fine, le sedute direttamente sulla moquette non erano la metafora di una “tabula rasa”, bensì l’allegoria di un ritorno alle origini, una ripartenza di Gucci che si fondava fin dall’inizio su solide fondamenta storiche. Le modelle sfilavano su una sorta di lastricato, calzando mocassini e sandali con morsetto, rivisitati dall’aggiunta di una fodera di pelliccia a pelo lungo che sporgeva dal tallone. In vita avevano la classica cintura con la doppia G. Il taglio e i tessuti degli abiti erano fluidi, antesignani del genderless. Indossavano camicette lavallière, tuniche in organza o pizzo oppure cappotti militari con le mostrine, duffle coat in drappo di lana pesante e canadesi in tessuto robusto per sfidare il maltempo. Sette anni dopo, rivedere questa “prova generale”, alla luce di tutte le collezioni sbalorditive di Alessandro Michele che sono venute dopo, può dare l’impressione di una proposta non proprio così memorabile. In realtà custodiva già questo formidabile eclettismo, un mix di creatività, umorismo, derisione, cultura e follia, che sono la chiave del rinnovamento esemplare di questa maison ultracentenaria da quando lo stilista romano ne è alla guida come direttore creativo, in tandem con Marco Bizzarri, ceo della società.

Circa 20 anni prima, dentro quelle stesse mura, Tom Ford aveva inventato il ruolo di direttore artistico che supervisionava tutto, dalla creazione dei modelli alla scenografia delle pubblicità, passando per l’allestimento delle vetrine, l’illuminazione delle boutique, il sorriso delle commesse e la composizione dei bouquet floreali sul bancone della cassa. Questo approccio globale dello stilista americano era moderno per l’epoca, conciso e ideale per questa casa di moda fiorentina che, dopo tanti anni, e altrettante questioni familiari, aveva perso l’orientamento. Diversi altri brand istituzionali ne avevano seguito l’esempio, ingaggiando un grande guru e talvolta puntando su stilisti imbevuti di marketing che, purtroppo, non avevano neanche un po’ del talento di Tom Ford per cullare qualsiasi idea di glamour e sex appeal. Dobbiamo riconoscere che la moda si era decisamente inaridita a livello di proposte nella grande epoca dei cartoni animati. Le sfilate si riducevano a una manciata di idee, riproposte incessantemente dalla prima all’ultima uscita e il cui numero era, oltretutto, esiguo. Gradualmente, quindi, sono scomparse tutte le tendenze varie e diversificate: imperava un unico trend, diffuso in modo identico su scala planetaria, come se la gente fosse tutta uguale. Una sorta di uniformazione che Alessandro Michele era deciso a smantellare fin dalla prima sfilata, e in tutte le successive.

Gucci Cruise 2020 Musei Capitolini/ Rome, (Photo by Vittorio Zunino Celotto/Getty Images for Gucci)

Lo scorso dicembre, su Hollywood Boulevard a Los Angeles, la sfilata Gucci Love Parade primavera-estate 2022 è stata un profluvio di un centinaio di look che si sono susseguiti senza assomigliarsi, pur conservando un medesimo filo conduttore: un “cadavere squisito”, come direbbero i surrealisti. Una proposta ricca, contrastante, generosa, che presentava asperità, contrasti, rilievi: una diversità che ha consentito alla griffe di raggiungere un vasto pubblico come nessun’altra maison riusciva da anni. Questa profusione si avverte chiaramente nelle boutique, da cui è difficile uscire senza provare un tuffo al cuore. Ed è ancora più evidente nei progetti periferici, come il Gucci Wooster Bookstore a New York o il Gucci Garden a Firenze. Boutique di destinazione per eccellenza, questo chiosco in Piazza della Signoria raccoglie una moltitudine di oggetti, abiti e accessori in uno spirito deliberatamente bazar. Ci sono borse a tutti i prezzi, gingilli da acquistare come souvenir in questa città toscana dove arrivano turisti da ogni parte del globo. Nonché edizioni esclusive, tipiche dei codici e dello stile Gucci, che spingono coloro che non conoscono (ancora) il brand, fondato proprio a Firenze nel 1921, a salire qualche gradino per scoprire il Museo su più piani. Come pure le grandi linee della sua storia nella lavorazione del cuoio e la produzione di selleria equestre delle origini.


Alessandro Michele sfida gli schemi tradizionali del lusso con ogni mezzo fin dal suo insediamento. Nel 2018, per esempio, si è riconciliato con il sarto newyorchese Dapper Dan, che negli anni 80 era stato accusato di plagio del logo di Gucci e di qualche altro brand, proponendogli di co-firmare una linea venduta prioritariamente in una nuova boutique-atelier inaugurata a suo nome nel quartiere di Harlem. Prima della pandemia, lo stilista desiderava sottrarsi al calendario ripetitivo delle Settimane della moda. Poi, ridurre la frequenza, il numero di collezioni e di eventi. L’autunno seguente, quando la situazione sanitaria aveva colpito particolarmente le start-up, ebbe l’idea del GucciFest, per presentare – grazie alla potente rete di comunicazione della maison – le creazioni di giovani stilisti indipendenti tramite una serie di cortometraggi. Nel mese di novembre scorso, la griffe ha messo online un nuovo concept store nello stesso spirito. Intitolato Vault, mescola pezzi Gucci di seconda mano, emblematici della storia dell’azienda e restaurati sotto la sua direzione, a modelli di una moltitudine di stilisti emergenti. «Io vivo perché respiro energie diverse. Oggi la moda ha bisogno di ossigeno che venga dall’esterno», spiega Alessandro Michele, artefice di questo ennesimo progetto geniale, che non si stanca mai di dare una seconda vita a Gucci e, per estensione, a tutto il mondo della moda.