Ennio Capasa, il rivoluzionario del tailoring

Ennio Capasa, il rivoluzionario del tailoring

di Gianluca Cantaro

Ennio Capasa è tornato con un nuovo progetto, Capasa Milano, in cui, lasciando da parte tutto il suo sharp + heritage, ricomincia «scrivendo su un foglio bianco». E sperimentando come coniugare la tecnologia avanzata e sublimazione artigianale

«Credo che il concetto di trend appartenga al passato. Era il risultato di una sedimentazione di energie che arrivavano da contesti sociali più o meno complessi», spiega Ennio Capasa durante la nostra conversazione in cui racconta la genesi del nuovo Capasa Milano, il suo brand che ha debuttato lo scorso febbraio a sei anni dall’addio a Costume National, label nata nel 1986 e che negli anni 90 aveva definito un’estetica affilata e dark, sexy e confident. E prosegue: «Prendiamo il punk, era un fenomeno che parlava di dissenso, ma che si indossava come un’uniforme. Ora non avviene più perché la velocità spazza via qualsiasi cosa senza lasciare che la comunità la elabori e la trasformi in qualcos’altro. David Bowie, per esempio, ha impiegato anni per diventare quello che era; oggi forse non sarebbe mai emerso perché non avrebbe raggiunto il successo immediato. Ovviamente ci sono fenomeni musicali contemporanei che durano, ma anche se un artista fa la hit di una stagione, va bene lo stesso». Così adesso il designer ricomincia da zero, forte della sua esperienza in un momento in cui forse avrebbe giocato facile riprendendo le sue silhouette anni 90 e 2000 fatte di abiti aderenti, crop top e minigonne, molto di tendenza e parte del suo heritage. Si sfida anche ad accendere nuovi desideri in generazioni poco intercettabili. «L’aspetto positivo del tempo in cui viviamo è la ricchezza di stimoli e possibilità; quello negativo è il consumismo sfrenato che crea quasi dipendenza. Per questo, lavorerò sul concetto più profondo di stile», sottolinea.


L’urgenza di riprendere in mano un progetto personale è nata durante una consulenza per un’azienda cinese. «Non era nei piani. Tutto è iniziato prima della pandemia con un prodotto non pienamente mio, ma è stato stimolante perché era una sfida che mi aveva allontanato dalla comfort zone», racconta. «Così, un giorno ho messo a fuoco ciò che trovavo obsoleto e ciò che aveva ancora valore del mio lavoro e si è innescato il meccanismo, anche grazie alla concatenazione di eventi favorevoli. Mi sono mosso dalla convinzione che la moda non debba vivere soltanto nella mente del designer, spesso imprigionato nella bolla di un mondo viziato, ma essere la relazione tra il tempo in cui vivi e l’estetica che hai. Se si perde quella sensibilità, è meglio lasciar perdere».


Così, prima che iniziassero i due anni difficili che stiamo vivendo, ha viaggiato e la Corea è stata la scoperta più interessante. «La scena giovane di Seul mi ha colpito molto: è diversa rispetto a Tokyo, Shanghai e l’Oriente in generale», racconta. «I vestiti sono una protesta sociale permeata da un forte individualismo. I ragazzi non sono schiavi del logo e arricchiscono il look con lo styling di pezzi vintage: il risultato è potentissimo. La loro unicità rappresenta un mondo a sé e io ho aggiunto la mia visione e la conoscenza del tailoring». Un bagaglio che a Capasa ha permesso di creare la base dalla quale impostare tutto, una specie di numero zero che si definirà nel tempo. «Ho già avuto un’esperienza importante, una storia fantastica, per questo cerco di purificarmi dal passato. Voglio essere più autentico possibile, perché, se non lo fossi, il pubblico lo percepirebbe», rivela. «Ho cercato di evitare al massimo ciò che apparteneva al mio ieri e ricominciare scrivendo su un foglio bianco. Il distacco da Costume National, che in parte è stato forzato, l’ho riassunto in un quadro che ho dipinto e si intitola Ennio crocifisso dai giapponesi, che cita Salvador Dalí e illustra il momento di dolore dovuto alla fine di un progetto che avevo iniziato a 23 anni».


Le sue parole non nascondono un certo rammarico. Capasa Milano è entrato come un meteorite nel calendario della scorsa edizione della Milano Fashion Week con un evento che ha aperto la settimana. «Carlo (fratello di Ennio e presidente della Camera della Moda Italiana, ndr) aveva già comunicato il calendario definitivo: sono andato il giorno dopo e, con grande imbarazzo, gli ho detto di voler fare la sfilata», spiega sorridendo. «Ci serviva uno spazio speciale, che sorprendesse, per questo abbiamo presentato al Teatro degli Arcimboldi, ma usato in maniera non convenzionale». Lo show è infatti avvenuto direttamente sul palco dove era tutto a vista: backstage, postazioni per il trucco, line up dei modelli. Senza filtri, come la vita di oggi tra social media e device, in un certo senso. «La tecnologia è una parte importantissima del nostro dna, dall’ispirazione, alla progettazione, alla realizzazione. Con Costume National eravamo stati i primi al mondo a fare uno show digitale nel 2001. Oggi, invece, devo essere colui che traduce la propria energia in una visione estetica moderna, seducente e affascinante e mi circondo di giovani per farlo nel modo più onesto possibile», spiega.


La collezione è composta da 36 look co-ed e ha come fulcro centrale il “relaxed tailoring”, come l’ha definito il designer, una silhouette ampia e morbida, lontana dallo stile smilzo di un tempo. «Negli ultimi anni il leisurewear ha avuto un grande impatto nella moda; io cerco un equilibrio tra il massimo del comfort e la precisione del formale. Sto sperimentando come coniugare la tecnologia più avanzata e la sublimazione artigianale. La giacca della seconda uscita della sfilata, per esempio, è completamente assemblata a mano, compresi i giromanica e i revers, ma è tagliata al laser, così si valorizza sia la tradizione sia la modernità. L’abilità dei nostri sarti è uno dei valori assoluti della moda italiana, ma sta invecchiando e, per non farla sparire, serve un aggiornamento». Lui ci sta provando. E se dopo aver segnato gli anni 90 con le sue linee sharp, fosse ora il vero rivoluzionario del tailoring?