Virgil Abloh: «Gli sport abbattono le barriere e le differenze sociali»

Virgil Abloh: «Gli sport abbattono le barriere e le differenze sociali»

di Fédéric Martin-Bernard

Come qualsiasi giovane americano, il direttore artistico della linea uomo di Louis Vuitton ha imparato presto a dribblare sul campo. Ha un ricordo indelebile e una passione immutata per il basket, che impone regole e disciplina. Un insegnamento che lo guida ancora oggi come racconta in questa intervista esclusiva per ICON.

Com’è nata l’idea di questa collaborazione tra Louis Vuitton e la NBA?

Chicago è la città natale del basket e la culla dei Chicago Bulls. Io ci sono cresciuto, circondato da un’infinità di immagini di questa disciplina e di sportivi divenuti delle star: Michael Jordan, Scottie Pippen, Horace Grant e altri. Gli anni 1990 e 2000 sono stati straordinariamente prolifici per questo sport dal punto di vista culturale. Ho voluto ricordare quest’epoca altamente formatrice, che mi definisce sia come stilista sia come individuo aperto alla cultura in generale. Con questa capsule collection con la NBA ho anche voluto dimostrare che la moda attuale non si limita a ciò che viene presentato sulle passerelle. È un universo molto più ampio, un’arte di vita, una fusione di molteplici riferimenti, come lo stile, la cultura, lo sport…


«Con questa collezione desideravo esprimere il potere e la libertà che lo sport offre a chiunque. Mi sembra essenziale essere il più inclusivo possibile e non lasciare nessuno in panchina»

Secondo lei il basket è lo sport nazionale negli Stati Uniti?  Contrariamente all’Europa – per non parlare dell’Italia – dove è piuttosto il calcio!

Assolutamente! In quel ventennio, il basket ha messo in luce personaggi incredibili e ha creato dei supereroi. Per noi bambini, questi giocatori erano superiori a qualsiasi divinità mitologica. È un fenomeno che continua tuttora con giocatori come Lebron James.

Quali sono i valori di questo sport?

È il gioco più democratico che esista. È accessibile a tutti, a prescindere dalla città o dal quartiere in cui si è cresciuti. Basta un pallone e dei buoni compagni per fare squadra. Cancella tutte le differenze e i problemi sociali: per questo ha sempre avuto una forte risonanza nel cuore americano.

Anche lei giocava a basket da ragazzo?

Ovviamente, fin da piccolo. Essendo di Chicago, non potevo sfuggire alla basket-mania e, poco a poco, ho cominciato ad apprezzare questa disciplina e la cultura che la circonda. Recentemente, durante il lockdown, ho guardato The Last Dance su Netflix, che mi ha suscitato diversi ricordi: il contesto dei Nineties con i relativi fenomeni culturali e così, anni più tardi, cioè oggi, capisco meglio perché questo sport sia così galvanizzante.

A quell’epoca, la diversità che si poteva trovare sui campi da basket non era forse altrettanto accettata per la strada.

La pallacanestro era avanti rispetto alla società americana, in particolare negli anni 90, quando giocatori afroamericani come Michael Jordan sono diventati dei personaggi popolari e ammirati in tutto il Paese. A quei tempi, questo sport ha pure permesso a persone provenienti da ambienti diversissimi di integrarsi in un’unica squadra, e sentire la forza del collettivo. È questa la formidabile potenza di questa disciplina. È un insegnamento che non si dimentica mai, che rimane un modello di inclusione nella mia vita quotidiana.


Pensa che lo sport in generale sia un universo tollerante?

Gli sport sono unificanti. Abbattono le barriere e le differenze sociali che rimangono fuori dagli stadi, nella vita reale. Sul campo, tutti i giocatori sono uguali e chi dimostra più determinazione, forza e talento diventa un campione, a prescindere dalle sue origini.

A proposito, quali erano i suoi idoli da adolescente?

Cito nuovamente Michael Jordan perché era un eroe per qualsiasi ragazzo americano – non solo di Chicago – per il suo fisico, la sua etica professionale, i punti guadagnati con il sudore e le lacrime e, inoltre, il suo atteggiamento e il suo stile personale. Come lui, anche tantissimi altri giocatori sono stati una fonte di motivazione, esempi viventi del fatto che era possibile farcela, a prescindere dalle proprie origini. Quando investi tutto te stesso in un mestiere come questo, il tuo unico limite è il cielo. Jordan e compagni hanno dato una grande speranza a tutta una generazione di ragazzi come me o Don Crawley, che ha collaborato alla seconda edizione di questo progetto tra Louis Vuitton e la NBA.

Giusto, perché ha coinvolto una terza persona in questa collaborazione?

Don Crawley è una figura importante della moda e della cultura di Chicago. Lo ammiravo prima ancora di conoscerlo. Da allora abbiamo stretto un’amicizia molto forte e intensa. In realtà parlo di amicizia, ma è un rapporto molto più profondo: Dan è un mentore per me. E quando ho iniziato a lavorare alla seconda stagione di questa collezione cofirmata Louis Vuitton e NBA, ci ho tenuto a coinvolgerlo nel progetto perché ha una conoscenza assoluta dei codici del basket.

Le immagini di questa edizione mostrano molte persone di origini diverse, contrariamente a quelle della prima, che rappresentavano un unico sportivo. Perché questa evoluzione?

Ancora una volta, il basket è lo sport più democratico. Era importante che la campagna lo ricordasse agli Stati Uniti e al resto del mondo, dall’Europa alla Cina, dove questa disciplina sta battendo dei record. D’altra parte, anche il mio studio creativo riunisce persone di origini e orizzonti diversi. Insieme, cerchiamo di celebrare culture differenti e creare cose che illustrino la rappresentazione di un universo misto quale è il nostro. E di cui la pallacanestro fa parte a pieno diritto. Inoltre, poiché Louis Vuitton è un brand internazionale legato al concetto del viaggio, ritengo che competa proprio al suo ruolo diffondere la cultura, educare e condividere valori umani grazie alla forza del suo marchio, del design e dello sport.

«Gli sport abbattono le barriere e le differenze sociali. Sul campo,  tutti i giocatori sono uguali e chi dimostra più determinazione, forza e talento diventa un campione, a prescindere dalle sue origini»

Lo sport – o gli sportivi e, in particolare, i calciatori – sono stati spesso ingaggiati da griffe italiane per attirare l’attenzione della gente. Ci sono delle somiglianze con la vostra iniziativa? A chi vi rivolgete in particolare?

Con questa collezione desideravo esprimere il potere e la libertà che lo sport offre a chiunque. Volevo che tutti si sentissero coinvolti. Oggi mi sembra essenziale essere il più inclusivo possibile e non lasciare assolutamente nessuno in panchina. Ci siamo rivolti anche alla modella transgender Kay perché ho sempre voluto promuovere la diversità e dare la parola a una pluralità di voci. La questione dell’identità e del genere è al centro del dibattito attuale. Bisogna parlarne apertamente per preparare le giovani generazioni a un mondo migliore.

Nel corso della sua storia, Louis Vuitton si è affiliato a diversi sport, tra cui la nautica, che è pure uno sport di squadra. Preferisce le discipline individuali o collettive?

Preferisco di gran lunga gli sport collettivi! Ho sempre amato collaborare con gli altri. Lo scambio costante è alla base del mio lavoro. Sono il giocatore di una squadra nell’animo.

Due mesi dopo il lancio di questa capsule collection inizieranno le Olimpiadi di Tokyo… Seguirà qualche gara?

Naturalmente! Guarderò le partite di basket e anche le gare di skateboard, che fa ormai parte delle discipline olimpiche.

Gli scatti dei look e degli accessori sono della collezione Louis Vuitton x NBA. Photo by Renell Medrano e Théo de Gueltzl per Louis Vuitton.