Oltre i cancelli dello stile. In conversazione con Alessandro Maria Ferreri

Oltre i cancelli dello stile. In conversazione con Alessandro Maria Ferreri

di Sofia Mattioli

Guardare più lontano. Così Alessandro Maria Ferreri ha conquistato i brand della moda e non solo

L’angolo da cui Alessandro Maria Ferreri, fondatore e Ceo di The Style Gate, osserva il mondo del lusso è da insider, ma con un’importante variabile in tasca, sempre spostata altrove, frutto del suo tragitto atipico. «Il mio percorso», spiega ricordando la sua formazione e i meravigliosi step della sua carriera, «è inconsueto. Ho frequentato il Politecnico di Torino, poi sono finito a New York lavorando per le Nazioni Unite. Per la laurea, nel lontano 1998, ho scritto una lettera a Massimo e Alberta Ferretti e come progetto finale del mio percorso di studi ho creato il software che i loro modellisti utilizzano per industrializzare i cartamodelli. Eravamo pionieri, sono rimasto con loro per otto anni, poi sono volato a Parigi da Jean-Paul Gaultier, quando Hermès aveva comprato il brand e nominato Monsieur Gaultier come direttore creativo. Ho lavorato per grandi brand e gruppi come Etro e Renzo Rosso, e oggi sono advisor nel cda di vari brand e società, come per esempio del colosso del real estate di Dubai Damac per il progetto Roberto Cavalli».

A chi si stupisce degli esordi tecnico-scientifici, Ferreri, uno dei pilastri chiave del Fashion Trust alla Camera Moda e Ambassador e Mentor del Trust per gli Emerging designers, replica che «nel luxury c’è molto di ingegneristico». E nella creazione di un nucleo autonomo, ovvero una società di consulenza come la sua, che sussurra all’orecchio di stilisti, imprenditori e direttori creativi? «Ugualmente. Costruire è un lavoro di geometrie». Soprattutto se il network è in continua espansione e, tra i clienti esclusivi, ci sono nomi come la famiglia reale del Liechtenstein, Antonio Marras, Villeroy & Boch, Armani, Bulgari, Pineider, non potendo citare nomi ancora più prestigiosi coperti da severissimi contratti di non divulgazione. «Iniziare è stato prendere una scelta drastica. Ho cercato di approcciare il mondo del luxury, che conoscevo molto bene, da un lato differente. Il timing è stato corretto: sei anni fa era appena iniziata l’era in cui direttori creativi e Ceo stavano abdicando, mentre il fashion business attraversava una profonda trasformazione».


Gli oggetti non sono più gli unici tenutari del concetto di lusso. Ora la voce luxury include valori che, a un primo sguardo, non sembrano attinenti.

Se cogliere lo spirito del tempo è stata una carta a favore di Ferreri, il resto è paziente e quotidiana ricerca di nuove formule. «In italiano la chiameremmo “società di consulenza”, ma la mia non lo è, è una advisory company», la cui missione, adottando una similitudine efficace, è «sussurrare all’orecchio di stilisti e imprenditori la migliore scelta da prendere». Il tutto in un tempo contratto e con una visione dilatata, inclusiva. «La pluralità di network che ho sviluppato negli anni ha fatto sì che potessi portare sul tavolo dati a cui molti imprenditori e stilisti non hanno accesso, informazioni preziose sulle nuove correnti che attraversano il mercato o sullo sguardo da adottare. Il consumatore, abituato anche all’e-commerce, è sempre più esigente, rapido, a volte quasi schizofrenico». A proposito di venti del cambiamento che scuotono il settore, quali i prossimi terremoti? «Gli oggetti non sono più gli unici tenutari del concetto di lusso, lo sappiamo bene. Tutto è in mutamento, ora la voce luxury include valori che, a un primo sguardo, non sembrano attinenti. Poi c’è un ritorno al desiderio di osare in termini di acquisto». Se questi sono gli ingredienti della formula vincente, cosa invece è stato, per Ferreri, materia di apprendimento? «Venivo da 25 anni nella moda, pensavo di aver visto tutto e di aver imparato tanto; oggi so che il diavolo sta nei dettagli», confida. «Ho imparato ad amare le start-up e le aziende più piccole. Ho riscoperto realtà più genuine, e per questo forse ancora più esclusive».