Non ha trent’anni, ma dice di parlare «come un sessantenne». Di certo, l’improvvisa notorietà non l’ha distratto dalle sue radici.

I simboli di Milano, per chi milanese non è, sono un po’ come nello spot Lavazza di Paolo Bonolis e Luca Laurenti: «Ho capito dov’è questo ufficio», dice Laurenti, accingendosi a salire su milioni di pioli che dovrebbero portarlo in paradiso, «se c’è la scala, è a Milano». La Scala in fondo è la cosa più milanese che ci sia. Di fronte al Duomo, accanto alla Scala, accanto agli archi da cui si entra a piazzetta Cuccia, c’è un ex albergo. Nicola Trussardi – uno dei protagonisti dello star-system fatto di moda, stilisti e vita moderna di quella che fu la Milano da bere – lo comprò negli anni 80.

È sede dell’azienda del levriero. C’è un negozio monomarca sulla strada, gli show room per i compratori ai piani intermedi; un bar abbastanza minimalista da due milioni di fatturato; un ristorante da tre milioni e con due stelle Michelin (starring Andrea Berton, lo chef, il quale però al momento è stato sospeso e potrebbe essere sostituito perché il suo stile culinario e la sua gestione sono troppo costosi); e infine la direzione in cima.

Tomaso Trussardi (una sola m, vedremo dopo perché) ci aspetta nella sua stanza, molto mansardata e molto bianca. Trussardi è un prototipo di bel ragazzo di ventinove anni, una barba distratta, vestito sportivo sui toni del blu con una cravatta a disegni cashmere (di solito difficili da mettere, i disegni cashmere). È nato a Bergamo, ma ormai vive qui, a due passi dal suo ufficio. La mattina – dopo aver fatto un po’ di sport – arriva a piedi, dà un’occhiata ai negozi e comincia a lavorare.

È diventato amministratore delegato di Trs Evolution, cioè l’azienda del gruppo dedicata alla produzione delle prime e seconde linee di abbigliamento e accessori. Ma in questo periodo è un ragazzo in vista anche per via della sua vita sentimentale. È fidanzato con Michelle Hunzicker, tema affrontato in questa chiacchierata, ma con discrezione ugualmente condivisa dal cronista e dal fidanzato. Se ne parlerà tra qualche riga, ma per cominciare ci sono gli affari. Dice: «Mi sto occupando di un negozio a Shanghai, la mia preferita tra le città cinesi».

Quant’è il giro di affari di Trussardi?
«400 milioni di euro l’anno comprese le licenze».

I prodotti più identificativi del marchio?
«Pelletteria e jeans. I jeans sono un mercato in grande trasformazione, in pieno processo democratico, se si può dire così. Con un’offerta che cresce. E noi teniamo bene la nostra posizione».

Milano, Shangai, i negozi in giro per il mondo. Non le manca Bergamo?
«Certo che mi manca. Anche se non ci viviamo più, abbiamo una bellissima casa, dove andiamo nei week-end. Le mie sorelle ci vanno con i figli. Lo stesso farò io quando avrò dei figli. La teniamo in piedi come se ci vivessimo ancora. Era stata una casa Colleoni, poi dei Quarenghi, quindi la comprarono i Pesenti e infine la prese mio padre. Sono cresciuto lì. È un punto cardine per tutti noi. Siamo bergamaschi e l’azienda nasce a Bergamo. Quando mio padre rilevò l’attività di mio nonno, una produzione di guanti fondata dal mio bisnonno, l’azienda era in grande difficoltà. Mio padre non lo raccontava mai, ma all’inizio servirono gli stipendi suo e di mia madre per rimettere le cose in sesto. Mio padre è partito da lì per arrivare davanti al Duomo».

Che cosa è rimasto della Milano della moda degli anni di suo padre?
«Quelli furono anni incredibili. E non ne è rimasto molto. Fino a qualche anno fa c’era Franca Sozzani (direttrice di Vogue Italia, ndr) che cercava di tenere in contatto noi ragazzi più giovani, gli eredi, con quello che c’era ancora di quel mondo. Ma è cambiata Milano ed è cambiata la moda. C’è meno sogno adesso. Negli anni 80 c’erano gli stilisti, Gianfranco Ferrè, Giorgio Armani, Nicola Trussardi, Enrico Coveri, Gianni Versace. Poi sono arrivati i grandi designer, per esempio Tom Ford che rivoluzionò e rimise in piedi Gucci. Adesso le aziende sono innanzitutto marchi. Noi siamo un marchio e anche una famiglia».

Le pesa questa storia della famiglia?
«Figurarsi. Nessun peso. Fino a pochi mesi fa diciamo che nessuno sapeva chi fossi, se non nel giro degli affari. Poi sono diventato anche il fidanzato di Michelle Hunzicker. Sono diventato più popolare per quello».

La diverte questo tipo di popolarità?
«Facciamo vita appartata. Non è un modo di dire, è proprio così. Io d’altra parte, ho sempre vissuto in maniera riservata… Sono uno cresciuto con quelle cose tipo “prima viene sempre il dovere”. Vede che parlo come se avessi sessant’anni?».

Quand’era ragazzino, che lavoro pensava che avrebbe fatto?
«Ho sempre pensato che avrei fatto questo, che il mio futuro sarebbe stato in azienda. Le riunioni, l’organizzazione, la pianificazione. Ed è questo il lavoro che mi piace. Certo ho avuto delle piccole sbandate, il giornalismo, la filosofia, ma rientrate…».

Filosofia e giornalismo?
«Mi iscrissi a filosofia perché mi è sempre piaciuta, poi smisi. Però ho studiato abbastanza per dire che necessità, volontà e possibilità fanno la virtù. Ho studiato filosofia, ma ho anche scritto di motori, automobili e motociclette per Libero. Cominciai per caso, scrivendo di una motocicletta. Mi piaceva molto. Ogni tanto, ma molto di rado, faccio ancora recensioni di supercars».

Secondo lei che cosa sarebbe successo se suo padre non fosse scomparso così presto?
«Impossibile dirlo; avrebbe cercato di fare crescere l’azienda, credo. Era un innovatore, mio padre. Un democratizzatore della moda, le sfilate in piazza Duomo, l’idea del Palatrussardi. Tutte novità. Questo per l’azienda. Per noi, per la famiglia, più difficile immaginare che cosa sarebbe successo. Personalmente penso che per diventare adulti bisogna passare anche dalla sofferenza».

Ha perduto suo padre e suo fratello a distanza di pochissimi anni, entrambi scomparsi in incidenti d’auto. Com’erano?
«Mio padre l’ho conosciuto innanzitutto in qualità di educatore. Mio fratello, invece, è la persona con cui ho condiviso la parte più formativa della vita, mi ha regalato la mia prima automobile – ce l’ho ancora e non la venderò mai – e mi ha coinvolto nel lavoro. Direi che a causa del tempo trascorso insieme, nella quotidianità mi manca di più mio fratello. Nella dimensione affettiva invece non ci sono differenze».

Com’è stato dal punto di vista imprenditoriale gestire un passaggio generazionale così brusco?
«Nella fase di passaggio c’è stata mia madre che con la mia sorella maggiore, Beatrice, ha preso le decisioni e con l’aiuto di professionisti ha effettuato la ristrutturazione dell’azienda. Poi siamo entrati nel gruppo anche mia sorella Gaia che si occupa dello stile e io».

Avete mai pensato di vendere?
«Mai, eppure ci chiedono spesso di comprare, perché siamo un marchio e siamo economicamente solidi».

Avete in mente dei cambiamenti per i prossimi anni?
«No, l’assetto del gruppo è questo. E abbiamo i mezzi per crescere da soli».

Ma perché Tomaso con una sola m?
«Non c’è una vera ragione. Il nome lo scelse mia sorella Beatrice. Aveva undici anni».

Testo: Marco Ferrante

Foto: Jonathan Frantini
Fashion Director: Andrea Tenerani