Dal numero 59 di ICON, la nostra intervista a Harvey Keitel, attore monumento del cinema americano.

Qualche tempo dopo aver fatto al telefono la conversazione che state per leggere, Harvey Keitel era sul set delle foto scattate per queste pagine e, in una pausa, ha chiesto di chiamarmi per un saluto: «La prossima volta che siamo l’uno nella zona dell’altro, io in Italia o tu a New York, sentiamoci per un drink. Mi raccomando». Cosa simile non m’era mai accaduta, né mai accadrà in futuro con qualsivoglia attore, figurarsi un monumento tale. La riporto non per mitomania, ma per suggerire almeno un poco, come posso, la delizia di quest’uomo; monumento, appunto, ma soprattutto signore bonario, realmente curioso di capire chi ha davanti (o dall’altro lato dello smartphone, a parecchie migliaia di chilometri di distanza) e di prendere l’ennesima intervista – quante diamine ne avrà fatte? – come occasione per chiacchierare di questo e di quello come si farebbe seduti al bancone di un bar.

Comincio io e comincio con The Irishman, ultimo capolavoro-fiume di Scorsese a cui Harvey partecipa quasi di soppiatto, ma dove, come sempre, è un lampo folgorante. Eccolo, il suo Angelo Bruno, gentiluomo broccolino con cravatta regimental e occhiali fumé, quasi quelli della vita reale. Lui, bonariamente, non ne vuole però parlare. «Voglio che sia la gente a dirmi quello che pensa dei miei film, non essere io a spiegarli. Quindi: vedeteveli da soli, e poi ditemi». La risata, la prima di molte, è anche quella deliziosa.

È già una massima da scrivere sulle T shirt, questa, o forse una lezione da lifecoach. Anche questa: la prima di molte. Quel che è stato è stato. Fatemelo sapere voi, se è andata bene o male. A me non interessa. Poi lui lo sa che è andata benissimo, come benissimo sono andati i sei film insieme all’amico Marty. «Con lui è sempre una grande festa». Adesso sì, ne possiamo parlare. «È uno che unisce la profondità di pensiero al divertimento. Per questo è sempre bello quando ti chiama a lavorare con lui».

Gli dico che sarà ormai stufo di raccontare tutte le storie e storielle raccolte su quei set, e invece tutt’altro. «Ti dico uno dei miei momenti preferiti con Marty. È stato quando abbiamo girato il nostro primo film insieme, Mean Streets. Che poi no, tecnicamente il primo film è stato Chi sta bussando alla mia porta, nato però come evoluzione del saggio che gli fu chiesto quando studiava alla New York University. Perciò io considero Mean Streets la nostra prima vera collaborazione. Comunque. Il momento più bello è stato questa ripresa notturna a Little Italy. Dovevo parlare da dietro una macchina, e lanciare la battuta a Bob (De Niro, ndr), che entrava in scena camminando. Erano davvero poche battute, le mie, ma continuavamo a girare la scena, e a girarla di nuovo, e di nuovo ancora. E Marty andava avanti a spiegare e spiegare. Finché, a un certo punto, non sono stato io a dirgli: “Marty, vuoi che la faccia meglio?”. E lui mi ha risposto, semplicemente: “Sì”. Stava tutto lì. È stata quella la prima lezione di Scorsese, di carriera e di vita. “Be better”. Fai meglio. Recita meglio».

Le altre storielle dai set che tutti vogliono ascoltare – flashforward – sono quelle con Quentin Tarantino, un altro che l’ha voluto nella sua opera prima. E sul fatto che, in questo caso, Le iene lo sia, sono tutti d’accordo (o quasi). «Martin e Quentin sono molto simili, hanno la stessa ammirazione per quella scuola di cinema che s’è sviluppata attorno all’Actors Studio, attraverso nomi come Elia Kazan e John Cassavetes, e tutti gli altri di quel gruppo. Abbiamo avuto tutti la stessa formazione, anche Quentin. Ci piacciono le stesse persone, abbiamo la stessa visione sul cinema, ma anche sul teatro. Io ho cominciato dal palcoscenico, e Quentin ha studiato teatro. E anche Marty, quand’era al college».

Il suo ultimo film (sì: quello di prima) è stato prodotto e distribuito da Netflix, dunque è inevitabile chiedersi e chiedergli: di quel cinema, di quel teatro, di quella scuola, che cosa resta? «È cambiato tutto, lo posso dire io che in mezzo alla cultura ci vivo ormai da tantissimi anni. Ho iniziato come giovane attore di Off Broadway, anzi “off off” Broadway. C’era questo grande movimento artistico in corso in America, e poi è arrivato al cinema. E il cinema l’ha cambiato, ma tutto è cambiato di nuovo. È cambiata la cultura, nel mio Paese lo stiamo vedendo ancora di anno in anno. Sai, c’è un film che ho fatto con il grande Ettore Scola. Ettore era grande davvero». Lo devo interrompere per forza: Scola mi è troppo caro. Il film, ad ogni modo, è Il mondo nuovo, andato al Festival di Cannes nel 1982, favola anch’essa rivoluzionaria (nel senso, però, di Rivoluzione francese) in cui Keitel era l’attivista statunitense Thomas Paine, accanto al Casanova di Marcello Mastroianni.

«Insomma, nel film c’era questa battuta bellissima di Mastroianni, che diceva: “Lo spettacolo è cambiato: il pubblico è salito sul palcoscenico”. Come per dire che tutto cambia, c’è sempre qualcosa di nuovo e di diverso a dettare la strada, anche dal punto di vista culturale. Prima c’era stata la letteratura, poi il cinema, dopo è arrivata la società. Ecco: nel tempo che viviamo, è la società a influenzare il mondo, a indicare la via». Continuiamo a parlare di Ettore Scola, vengono fuori altre cose favolose.

«Mi ricordo un’altra volta, qualche anno dopo, in cui mi chiamò. Lui era a Venezia per la Mostra del cinema, in Italia era appena uscito L’ultima tentazione di Cristo (sempre diretto da Scorsese, ndr) e la Chiesa si era schierata contro il film, era scoppiato uno scandalo. E allora Ettore mi disse: “Harvey, tutti questi preti il film non l’hanno visto e lo condannano. Io nemmeno l’ho visto, ma sai che cosa faccio? Dico che è bellissimo”». Ride lui, rido io.

Dal cinema italiano, che per un bel pezzo ha contribuito a indicare la strada della cultura internazionale, Harvey c’è passato attraverso: Scola ma anche Lina Wertmüller (Un complicato intrigo di donne, vicoli e delitti, 1985), e Damiano Damiani (L’inchiesta, 1986), e Carlo Lizzani (Caro Gorbaciov, 1988), e pure Dario Argento (l’episodio Il gatto nero nel dittico, co-diretto con George A. Romero, Due occhi diabolici, 1990). «Ricordo con affetto anche Roberto Faenza (che l’ha voluto nel 1982 per Copkiller – L’assassino dei poliziotti, ndr). E, più di recente, Paolo Sorrentino (con cui ha girato Youth – La giovinezza nel 2015, ndr). Paolo è un talento grandissimo. La grande bellezza è un film meraviglioso».

Gli autori se la palleggiano con i personaggi, in questa partita a cosa è più cult. Si potrà mai scegliere un vincitore? «Se dicessi che sono più affezionato a questo o a quel ruolo, i registi verrebbero a cercarmi per prendermi a botte». Fa una risata. «Forse il mio film che viene citato più spesso, quello che la gente ricorda di più, è Il cattivo tenente di Abel Ferrara. Ci sono legato anch’io, ricordo che su quel film abbiamo improvvisato moltissimo, cosa che non succede spesso». Chissà se s’improvvisa anche il fatto di essere un’icona, di recitazione ma pure di stile. Gli occhialetti scuri, appunto, ma anche le giacche morbide col colletto della camicia spesso di fuori, il panama, il cravattino per le soirée importanti.

«Io mica mi considero un’icona. Ti dico io la definizione di me che mi piace di più: un ex marine ormai invecchiato». Basterebbe anche solo questo, come lezione di moda. «Lo stile, però, non è mai un caso, è sempre una scelta. Io, il mio, l’ho scelto. Sono sempre stato attratto dalle forme e dai colori, corro dietro a quelli che mi piacciono spesso in modo anche istintivo, feroce». Probabilmente per questo Keitel è sempre stato, a suo modo, il paradigma di una mascolinità certamente non tossica, come si usa dire oggi. «L’uomo, giustamente, si è evoluto seguendo la società e i suoi cambiamenti. C’è voluto tanto tempo anche per accettare i maschi omosessuali, ma è bellissimo che oggi ciò sia normale, sono passaggi necessari per la nostra cultura, per tutti noi».

Andiamo avanti a parlare di regia: «Sedersi dall’altra parte della macchina da presa è un’impresa difficilissima. Ed è difficilissimo trovare i finanziamenti, e poi tutto il lavoro di pre-produzione prima di cominciare le riprese. Insomma, ho capito che non faceva per me». Di ispirazioni: «Quelle di sempre. La letteratura, il cinema, l’arte, ancora oggi. Sono felice che adesso siano a disposizione di tutti, sempre di più». Di rimpianti: «Com’è che dicono i francesi? Je ne regrette rien». Alla fine, anche di un numero: 80. Gli anni che ha compiuto a maggio dell’anno scorso. «Andavo sempre a giocare in una sala da biliardo di Brooklyn. Il gioco che facevamo tutte le volte era Palla 8. Si mettevano le palle nel triangolo, e poi si spezzava, e alla fine vinceva chi faceva strike e metteva in buca quella nera. La 8. È questo il mio rapporto con quel numero. Tutto il resto, non m’interessa». È l’ultima risata. E pure l’ultima lezione di vita. Mi sembra una buona chiusa. Prima del drink che io e Harvey ci berremo a New York o a Milano o chissà dove, lo so che prima o poi accadrà.