È la pulce, È il gigante. Sembra poco ingombrante, ma per fargli spazio vennero cacciati campioni. Non alimenta gossip: solo in campo è un personaggio. Ma che personaggio, Messi

In Anatomia di un istante, romanzo che affronta il tentativo di colpo di stato del 23 febbraio 1981 in Spagna, Javier Cercas cita Jorge Luis Borges: «Qualunque destino, per lungo e complicato che sia, consta in realtà di un solo momento: quello in cui l’uomo sa per sempre chi è». L’ho recuperato dalla polvere della memoria per dedicarlo a Leo Messi e all’attimo in cui, tredicenne, sta dribblando un branco di coetanei sotto gli occhi di un ansimante Carles Rexach, rientrato in ritardo da una missione a Sydney, sì, ma non al punto di perdersi le diavolerie di quel cucciolo tutto pelle e ossa. Siamo nel 2000: siamo, soprattutto, a Barcellona. Rexach, che per mansioni e stipendio deve vedere oltre la linea dell’orizzonte, si sporge, si alza, si butta: prendiamolo, subito.

Un tanto al metro — I dubbi del presidente Joan Gaspart vengono spazzati via dal furore sensitivo del dipendente. La famiglia Messi aveva posto fior di clausole, visto che avrebbe accompagnato il pargolo: casa, scuola, cure e lavoro per papà Jorge. Narrano i biografi che Rexach partì in tromba per Rosario e, invitato dal padre di Messi in un bar, gli strappò uno scarabocchio su un tovagliolo di carta.

Non è una favola, e nemmeno una saga. È la storia di uno di noi, nato per caso il 24 giugno 1987 a Rosario, Argentina, dove un suo trisavolo, Angelo, era emigrato nel 1866 da Recanati, culla di Giacomo Leopardi. Sangue marchigiano, come Mauro German Camoranesi, i cui antenati mossero dalla provincia di Macerata. Lionel Andres Messi fu colpito all’età di dodici anni da una deficienza di somatotropina, l’ormone della crescita. Senza medicine adeguate e costose – 900 dollari al mese per almeno tre anni – addio sogni di gloria. Il Newell’s Old Boys, la squadra che lo aveva arruolato, non ha il becco di un quattrino, idem il River Plate di Buenos Aires. Pecunia non olet, certo: l’importante è trovarla. E se proprio dovrà essere Europa, che Europa sia. Da cosa nasce cosa: parenti della famiglia Messi hanno piantato le tende a Lérida, non lontano da Barcellona. Il passa-parola produce contatti con gli zerozerosette che il club tiene in Argentina e l’invito per un provino in Catalogna. Fino all’irruzione trafelata di Rexach, e alla firma: 1° marzo 2001.

Sono passati undici anni e Messi, oggi, è un’azienda che tra ingaggi, premi e sponsor fattura 33 milioni di euro a stagione (fonte France Football). La terra battuta dello stadio Grandoli, dove tirò i primi calci, appartiene all’album di famiglia, ai segni e ai sogni di un’infanzia non particolarmente difficile, eccezion fatta per la minaccia di diventare (o restare) nano. A Rosario è nato Che Guevara, uno che la rivoluzione l’ha fatta sul serio. Leo l’ha fatta a modo suo, per interposta metafora, sfidando e schiacciando i Rambo del calcio di regime, a conferma di quanto, a volte, lo sport sappia essere democratico. Pesa 67 chili ed è alto un metro e sessantanove: tutto il contrario di quei ciclopi che continuano a infestare le arene, come se il talento si misurasse un tanto al metro (e al chilo).

Maradona e il catalano — Di tutti i fantasisti o sedicenti tali reclutati dalla propaganda, Messi è colui che più avvicina il genio selvaggio di Diego Armando Maradona. Diego aveva solo il sinistro e resta un leader: probabilmente, “il” leader. Leo usa anche il destro ed è più goleador che leader. Il pibe ha portato l’Argentina al titolo mondiale del 1986 e il Napoli a obiettivi mai centrati prima né dopo (due scudetti, una Coppa Uefa); la Pulce ha spinto il Barcellona sul tetto del mondo, mescolando efficacia ed estetica, operazione che l’ingorgo dei calendari rende sempre più tribolata. In Nazionale, viceversa, è fermo al mondiale under 20 del 2005, in Olanda, e all’oro olimpico di Pechino 2008. Gli manca la coppa del Mondo, fallita nel 2006 in Germania e nel 2010 in Sud Africa, agli ordini di Maradona. «Il catalano»: lo chiamano così, gli argentini, seccati e invidiosi che il loro Messi sia meno messia dell’altro, il piccolo principe del Barcellona.

«I grandi ci appaiano grandi solo perché siamo in ginocchio: alziamoci», scrive Michel Winock in Francia 1789, cronaca della rivoluzione. Ecco qua un bel pretesto per agganciare l’altezza alla statura e l’ordinario allo straordinario, che sono poi i confini della carriera di Messi. A meno di venticinque anni ha collezionato, tutti con il Barça, cinque “scudetti”, cinque Supercoppe, una Coppa di Spagna, tre Champions League, due Supercoppe d’Europa e due Mondiali per club. Per tacere del Fifa World Player e dei tre Palloni d’oro consecutivi che gli hanno permesso di eguagliare la tripletta firmata da Michel Platini negli anni Ottanta, quando i giocatori extra-europei non figuravano tra i papabili.

Le cosce di Cristiano — La scalata di Messi è un inno al dribbling così come i ragazzi lo ricamavano tra l’erba brulla delle periferie e il terriccio degli oratori scampati al cemento. Palla incollata al piede e la porta come unico ed estremo desiderio: «di quel securo il fulmine tenea dietro al baleno». Se abbinate la rapidità d’esecuzione e di pensiero alla padronanza degli strumenti, avrete il giocatore, oggi, più bravo al mondo. Non dico più forte, perché mi vengono in mente le cosce di Cristiano Ronaldo. Ma più bravo sì, senza se e senza ma. Fu Frank Rijkaard a sdoganarlo, ed è stato Pep Guardiola a lanciarlo in orbita. Pur di liberarne l’estro, e allargarne il raggio d’azione, Guardiola convinse la società a cedere Ronalindho, Deco, Eto’o e perfino Zlatan Ibrahimovic. Nella sua biografia, Io, Ibra, lo svedese ha indicato proprio Guardiola come bersaglio di un livore scrosciante. Fu un errore, un grave errore del tecnico: impossibile non sapere come giocasse Ibra. Il disegno contemplava lo scivolamento centrale di Messi: di qui l’esigenza di sfrattare gli inquilini dal cuore dell’attacco, come David Villa, se non addirittura dalla rosa, come, appunto, Eto’o, che già aveva preso «alloggio» all’ala, e Ibra.

«Il centravanti del Barcellona è lo spazio», disse un giorno Guardiola. Tutto potrà dire finché Messi (e Xavi, e Iniesta) giocherà nel Barcellona: tutto, anche che il tempo è un lampadario, come la luna di Gustave Flaubert. Leo Messi è l’alta velocità che corre sui binari di una classe fuori dei limiti omologati e dentro la più normale delle esistenze. Messi dà titoli al club, non ai giornali: e solo quando rotola il pallone, le due esigenze coincidono. Nulla in comune con le mattane di Ibra o le spacconate di Cantona. E neppure, a maggior ragione, con la privacy di Maradona, che tutto era tranne basso profilo, dalle donne alla coca, da Fidel Castro a Hugo Chavez.

Dove finisce la partita — I rotocalchi lo danno fidanzato con Antonella Roccuzzo, originaria di Rosario come lui, cugina di Lucas Scaglia, grande amico ed ex compagno di squadra. Per ora, Leo finisce dove e quando finisce la partita. Non come altri, che continuano, o proprio di lì cominciano. I gol che realizza sono emozioni filanti. Contro il Getafe, in coppa, ne siglò uno da porta a porta, tipo Maradona agli inglesi. Contro il Bayer Leverkusen, in Champions, è arrivato a cinque, record dei record. Segna poco di testa, tappo com’è, e allora per farlo sceglie occasioni elitarie ed esclusive, come l’euro-finale del 2009 a Roma, la prima delle due contro il Manchester United. Non poteva mancare un gol di mano (all’Espanyol), dal momento che essere collocati così vicino a Diego comporta onori, oneri e scottature varie. Soltanto uno gli ha dato del simulatore dopo averne assaggiato il forbito repertorio: José Mourinho.

Messi non ha cambiato il gioco, lo ha impreziosito e aperto alla carcassa di tutti, sfilandolo dai muscoli di pochi. Penso a Gianfranco Zola, a Fabrizio Miccoli, a Sebastian Giovinco, più piccolo di cinque centimetri. Penso a un calcio che, fin dalle generose zuffe nei cortili, possa restare agorà e non lobby, libertà e non lavagna, grandezza e non grossezza, al netto delle gerarchie che poi il talento provvedrà a fissare. Il provino di Leo a Barcellona, nell’anno di grazia Duemila, durò due settimane. Rexach, bloccato in Australia, lo prese per la coda, agli sgoccioli degli sgoccioli. Il destino era lì, in agguato, un occhio al ragazzo e l’altro all’orologio. Ancora un po’, e chissà che razza di storia avremmo scritto. Non certo questa.

Testo: Roberto Beccantini