Da Montparnasse al Meatpacking district, con completi Armani e sneaker nere, nei fumi di svariati cigar bar, tra gli sguardi liquidi di troppe ragazze. Cronaca di 25 anni di amicizia con “Dillon il selvaggio”.

Ho conosciuto Matt Dillon 25 anni fa al bar della gigantesca brasserie La Coupole, a Montparnasse, il primo mese che lavoravo a Parigi. Ero col mio amico Mick, un professore di Belfast, che non aveva la più pallida idea di chi fosse Matt Dillon. Matt era in piedi accanto a noi in compagnia di un amico più anziano, un agente di Los Angeles di nome Vic. A Mick, però,  non era passato inosservato che eravamo stati attorniati da una ventina di graziose parigine. Mi sarei reso conto in seguito che quand’eri con Matt le donne ti circondavano come un branco di squali affamati.

Come la maggior parte degli irlando-americani, Matt adora ciò che è autenticamente irlandese. E dato che lo sapevo, calcai volutamente la mano sfoggiando un marcato accento del Nord; così, inevitabilmente, finimmo per attaccare bottone, e riuscimmo persino a procurarci un buon tavolo con le panche. Benché fossimo in un angolo, decine di donne non fecero che passarci davanti per dare un’occhiata a Matt – erano passati poco più di un paio d’anni da Rusty il selvaggio – scavando letteralmente un solco nel parquet. Trattandosi di francesi e non di americane, nessuna di loro gli chiese l’autografo, ma una sosia di Brigitte Bardot si avvicinò per sussurrargli: «Je t’adore, Rusty James». Sebbene sia sempre stato perfettamente consapevole del suo sex appeal, Matt di solito s’imbarazza da morire quando gli fanno i complimenti, anche se ho sempre sospettato che questo risulti più seducente che non gongolare per le attenzioni ricevute.

«Le parigine saranno anche complicate, ma è dura battere le ostriche e lo Chablis della Coupole» mi disse sorridendo Matt. Quel giorno indossava un abito grigio Emporio Armani con delle sneakers nere. È sempre stato un tipetto elegante, ma con un look molto casual e informale, spesso sans cravatte. Dopocena, insisté per un sigaro e un margarita al Rosebud, un jazz bar francese vecchio stile con cocktail fenomenali. Matt adora i sigari che ti offrono là, quasi quanto Cuba e tutto ciò che riguarda l’isola – soprattutto la musica. Quando arrivammo al locale, tutti attorniarono Matt prodigandosi in attenzioni; un po’ come entrare all’Harry’s Bar in compagnia di Hemingway. Tempo pochi secondi, e una petite française di nome Fifi si avvicinò al nostro tavolo – «S’il vous plaît…?» – e chiese a Matt se poteva darle una mano con la sua interpretazione di una pièce di Henry Miller. Da gran signore qual è, Matt cominciò a leggere, ma prima ancora che fosse arrivato alla fine della prima frase Fifi l’afferrò decisa, lo sbatté contro una colonna e lo baciò con passione sulle labbra. Dopodiché gli sussurrò: «Matt, je t’aime, je t’ai toujours aimé». La reazione di Matt? Di nuovo, quella faccia da ragazzino sorpreso di ritrovarsi al centro dell’attenzione, oggetto di tanto desiderio. La reazione di Fifi? Il più profondo dei sospiri mai emesso da una donna innamorata.
Proseguimmo il nostro tour. Matt evita di andare nei nightclub – troppo chiasso, troppi uomini gelosi. Scoprii il perché già quella sera, quando puntammo verso il Chicago. Una volta entrati, due pupe svedesi dalle gambe chilometriche ci invitarono a casa loro per «bere un caffè. Prima, però, dobbiamo dirlo ai nostri boyfriend». Dopo che i barman ci ebbero chiarito chi erano i due “boyfriend” – i buttafuori del locale, nonché difensori della squadra di rugby parigina – capimmo che il futuro non aveva in serbo per noi nessuna notte di nordiche follie. Levammo le tende con discrezione.

(leggi il testo integrale su ‘Icon’ n. 9, aprile 2013)

Testo Godfrey Deeny

© Riproduzione riservata