Metti gli Uffizi su TikTok: intervista al direttore Eike Schmidt

Metti gli Uffizi su TikTok: intervista al direttore Eike Schmidt

di Marta Galli

Il museo fiorentino accelera a dispetto del tempo perduto e primeggia su TikTok, dove è sbarcato a marzo e affascina i più giovani. In barba ai soliti “parrucconi”. Perché l’arte è identità, come ci racconta in questa intervista il direttore Eike Schmidt.

Su TikTok, il social media creato per i teen-ager, gli Uffizi dominano la classifica dei musei, in testa al Metropolitan Museum di New York e al Rijkmusem di Amsterdam. E pensare che quando l’attuale direttore Eike Schmidt prese le redini, nel 2015, lo storico museo fiorentino non aveva nemmeno un sito internet. Oggi invece, nella sfera digitale il museo conta traguardi e Schmidt non si imbarazza a parlar di follower, che su Instagram hanno superato il mezzo milione (il 30% ha tra i 25 e i 34 anni): seguaci che hanno premiato di “like”, in particolar modo, post come la Venere di Urbino di Tiziano, pubblicata sull’onda del #DollyPartonChallenge, o come il Perseo di Cellini, postato nei primi tempi della pandemia a simboleggiare il terrore di quei giorni. Emozioni universali dell’arte che, si capisce, possono funzionare anche sui canali del nuovo millennio. Specie se quei canali diventano l’unica via di accesso al museo, come è accaduto durante il lockdown.

Così, mentre i musei sospendevano tutte le attività a data da destinarsi, gli Uffizi sfoderavano un’inedita voglia di rimanere in contatto con il pubblico: prima con la campagna social Uffizi Decameron e poi facendosi “realtà virtuale” e mettendo la Sala delle Dinastie con la sua suite di ritratti dei Medici e i della Rovere e le sale zeppe di capolavori del Cinquecento veneziano a portata di clic. Attività che proseguono arricchendosi di nuove mostre, video mignon e iniziative su tutte le piattaforme (Instagram, Facebook, TikTok, Twitter) che mescolano cultura alta e bassa secondo lo schema ciceroniano dell’oratoria “docere, delectare, movere”, e faranno, è presto detto, da apripista.

E così anche il Comune di Firenze lancia una call agli influencer per risollevare il turismo in città.
Bene, noi siamo arrivati prima. Grande successo la diretta a inizio giugno con la “creator” Martina Socrate su TikTok: oltre 60 mila persone ci hanno seguiti. Molti poi sono diventati anche nostri follower. Cresciamo visibilmente su tutte le piattaforme social. E mentre su Instagram abbiamo un seguito internazionale, Facebook è molto utilizzato dai fiorentini.

Qual è il segreto per una comunicazione efficace sui social media?
Le iniziative lampo lasciano il tempo che trovano. Occorre una presenza quotidiana, che ha a che vedere non solo con la promozione del museo, ma anche con una costante offerta culturale e identitaria.

Familiarità e ritualità quindi?
Familiarità sì, ma è importante mantenere la capacità di sorprendere. Nessuno si aspettava che uscissimo con dei video in latino, ma hanno avuto anche questi – coincidenza – già oltre di 60 mila visualizzazioni. Si è scelto il latino non per snobismo, ma perché parlano di antichità romana o di opere che sono state influenzate dalla letteratura antica come “La Calunnia” di Botticelli.

Non occorre snaturarsi per trovare un seguito social?
Ah, il cosiddetto ‘dumbing down’ fa più danni che altro. Bisogna prendere sul serio la gente e quello che vogliamo comunicare. Ciò non significa che non possiamo concederci di tanto in tanto anche un po’ di umorismo e autoironia, che è la caratteristica del canale TikTok, di certo meno cattedratico.

L’approdo su TikTok non vi ha risparmiato critiche.
Ma ci sono sempre i soliti “parrucconi” che non vogliono accettare che il mondo va avanti con le nuove tecnologie, e che vedono minate le loro posizioni di rendita! Tecnologia e tradizione non sono in contraddizione, e da qui raggiungiamo il gruppo più difficile di persone: gli adolescenti in piena ribellione puberale.

Chi invece vi ha supportati in questa scelta?
Abbiamo avuto immediatamente il plauso di figli e nipotini dei nostri dipendenti che, per primi, ci hanno però messo in guardia dall’usare questo canale per dare messaggi tradizionali. Ci hanno insegnato che ci sono regole anche su TikTok, come ad esempio quella di non fingersi ciò che non si è. Abbiamo imparato dai più giovani.

E su TikTok, che è l’ultima addizione al panorama social, siete il museo leader al mondo; tuttavia su Facebook l’approdo è stato tardivo…
Con 15 anni di ritardo. Sembra incredibile, ma devo ricordare che quando sono arrivato alla direzione degli Uffizi, nel 2015, il museo non aveva nemmeno un sito web. Abbiamo all’epoca deciso di sbarcare su Twitter e Instagram, e la scelta ci ha premiato. Era chiaro che il treno di Facebook era già partito. Quando il 10 marzo scorso, un giorno e mezzo dopo l’inizio del lockdown, abbiamo inaugurato la nostra pagina Facebook, eravamo pronti da tempo ma aspettavamo il momento più idoneo.

Il lockdown è stata l’opportunità per recuperare il tempo perduto?
È stata un’opportunità e una necessità, perché avendo chiuso le nostre porte era l’occasione per rimanere in contatto con gli italiani di tutto il mondo che sono i proprietari del patrimonio artistico che noi custodiamo. La buona notizia è che anche adesso continuiamo a crescere e abbiamo già 57 mila follower.

Possiamo dire che avete creato un’anticamera pop?
Non solo anticamera, anche post-camera: è tutto un apparato che funziona per prepararsi prima della visita, a cui ricorrere durante la visita davanti alle opere, o per approfondire dopo. Non sono alternative o due mondi diversi, ma sono a completamento uno dell’altro.

E magari un’opportunità democratica per scavalcare i costi di biglietti e viaggio.
Per fortuna in Italia il trasporto pubblico non ha prezzi così proibitivi; altrimenti sarebbe un grande problema di cui la mancata visita agli Uffizi costituirebbe francamente il minore. Ma sappiamo che in India, ad esempio, si hanno più cellulari che cibo, per cui potremmo dire che siamo una democrazia planetaria, siamo universali, in questo senso sì.

Come si concilia la comunicazione di una grande istituzione tradizionale con il linguaggio veloce dei nuovi media, dove la gaffe è dietro l’angolo?
Per noi è fondamentale avere un team fatto di esperti storici dell’arte e archeologi che conoscano benissimo le collezioni, ma egualmente importante è conoscere “i pubblici”, che sono sempre al plurale. Occorre conoscere altre culture per evitare le gaffe che abbiamo visto in alcuni casi nel settore automobilistico o della moda. Per questo ci sono più occhi che guardano ogni post. Nel team abbiamo persone molto diverse per stili di vita, filosofia, orientamento politico e questa pluralità finora ci ha preservato dal commettere passi falsi.

Sembra che i social stiano facendo da traino al complesso museale reale.
Hanno contribuito ad allargare il nostro pubblico in termini di gruppi, portando al museo persone più giovani che vengono, questa volta, non trascinate dai genitori ma interessate a vedere le collezioni. E tuttavia la missione del museo non è di massimizzare il numero di visitatori: in certi periodi dell’anno – non quest’anno – abbiamo semmai il problema opposto.

Qual è la missione ultima?
Diffondere la conoscenza dei nostri tesori sviluppando un senso per la storia e la diversità culturale. Agli Uffizi oltre ai capolavori italiani sono conservate collezioni provenienti da tutto il mondo, come gli arazzi che vengono dall’Europa transalpina, i vasi cinesi e la più grande raccolta di tappeti islamici al di fuori dei paesi arabi, che ne hanno fatto un museo universale secoli prima che il concetto stesso di museo universale nascesse. Ma naturalmente si trova a Firenze, in Toscana, in Italia: e si tratta con questo di trasmettere il cuore e l’identità della cultura italiana.