Jerry Saltz: lo sguardo (disincantato) sullo stato dell’arte. Parola a Francesco Bonami

Jerry Saltz: lo sguardo (disincantato) sullo stato dell’arte. Parola a Francesco Bonami

di Luca Zuccala

Chi meglio di un artista fallito che ha trasformato il suo fallimento in un Pulitzer della critica può raccontare “come diventare un artista”? Nessuno. Ancor più se il “fallito” in questione è Jerry Saltz (Chicago, 1951),  mitologico critico americano con quasi 1 milione di follower (“seguaci” in questo caso è perfetto) sui vari social network e una carriera che dopo anni di camion (sì, ha fatto il camionista) ha imboccato la strada della critica d’arte, diventandone un vero e proprio guru. Il curatore italiano Francesco Bonami ci racconta cosa ne pensa della situazione artistica di oggi.

Nel nome della sempre fedele miscellanea di “personale, politico, puro e profano” con cui ha vinto il Premio, Saltz ha raccolto 63 lezioni su “Come diventare un artista”. Nel libro, edito dalla preziosa Johan & Levi, si alternano massime come “Gli artisti sono come i gatti, l’arte è come un cane”, consigli “Impara a fare gruppo, forma la tua gang”, incitazioni tipo “lavora, lavora, lavora” e lapidarie sentenze “Probabilmente sarai povero, quindi fattene una ragione”.

“Un libro che dovrebbero leggere tutti quelli che avranno il coraggio di fare gli artisti” dice Maurizio Cattelan. E non solo loro: chiunque graviti nel magico mondo dell’arte dovrebbe almeno aprire il volume, anche solo per quel sano e utile realismo di cui è intriso. Che non significa di certo cinismo, quello (il cinismo), scrive Saltz, “pensa di conoscere la verità; è Repubblicano nell’animo; crede nelle certezze, mentre l’arte crede nel paradosso”. Qui si tratta di pura e colta schiettezza, qualità che contraddistingue anche un caro amico di Saltz, Francesco Bonami, tra i più celebri curatori italiani al mondo. A lui la parola.

Curator
Francesco Bonami

Chi è, che figura è Jerry Saltz?

Saltz è un giornalista d’arte, un guru per gli aspiranti artisti. Conta centinaia di migliaia di follower sui social che utilizza come piattaforme critiche, politiche e polemiche. É una sorta di piccolo santone, una figura molto americana che fuori dal mondo dell’arte avrebbe sicuramente creato una setta. É diventato giornalista quando è arrivato a New York, dopo aver provato a fare l’artista. Ha scritto per il Village Voice, settimanale di riferimento negli anni 80/90, e si è sposato con Roberta Smith, grande firma del New York Times. Poi ha cominciato a scrivere per il New York Magazine e nel 2018 ha vinto il Pulitzer per la critica (suo tra le cose il sito d’intrattenimento Vulture nda). Interessante che lui non abbia vinto il premio con un articolo su un artista o una mostra, ma con un pezzo su se stesso (My Life as a Failed Artist), sull’artista fallito che era. Da qui è venuto fuori il libro. 

“Come diventare un artista”. É un libro utile alla causa?

Ti insegna perché essere un grande artista dipenda solo da te. Il “Come diventare un artista” è tradotto dall’inglese “How to be an artist” che se ci pensi è un po’ diverso. In inglese è “Come esserlo davvero un artista”, in italiano suona più “Come apprendere la decisione di diventare artista”. Nel libro comunque sono contenuti entrambi i significati.

Come si diventa un artista? Saltz racconta che servono 12 figure tra critici, galleristi e collezionisti.

Sì, puoi avere le 12 persone utili che ti fanno andare avanti ma per diventare Damien Hirst o Jeff Koons non ne bastano. Ci vuole una testa che capisca come queste 12 persone facciano parte di un discorso più ampio.

Qual è la differenza tra un artista che ce la fa e uno che non ce la fa?

Un artista che ce la fa ha un talento, una intuizione, ed è anche capace di mescolare strategie di sistema. Deve avere il prodotto, un’opera d’arte che veramente scardina, parla, intuisce, ed è in sincronia con un momento storico preciso. Un artista che ce la fa quando parte vuole diventare un grande artista. Critico sempre quegli artisti che dicono “a me mi basterebbe…”. No, non ti deve mai bastare. Magari non diventi Cattelan, Koons, Hirst, Kusama, però bisogna partire con quella volontà.

Perché sono tutti ossessionati dai vari Hirst e Koons, simboli del “male” dell’arte contemporanea?

Hanno cavalcato un mercato globale e la gente identifica tutto con il denaro, con il mercato. Siamo molto moralisti nel mondo dell’arte.

Relazione complicata quella tra artisti e denaro…

Anche perché spesso gli artisti negano di essere interessati ai soldi. C’è un’ipocrisia di fondo: sentirsi delle divinità e parlare a un mondo molto ristretto e con molte macchie. Se uno dovesse fare un censimento di dove vanno a finire le opere dei grandi artisti… Chi compra a certi livelli spesso non è proprio un Santo.

Quanto serve il curatore per “diventare” artista?

I curatori di fondo non servono. Curare dà una ragione di essere ad un rapporto con gli artisti. Il curatore è una figura di appoggio, aiuta il grande artista ma non lo crea. Chi dice che il grande curatore ha inventato e scoperto l’artista non dice il vero, il grande curatore, come il grande gallerista, ha avuto la fortuna di trovarsi in un momento storico particolare. Io, per esempio, ho avuto la fortuna che nel 1993 quando cominciai a fare il curatore venivano fuori Damien Hirst, Matthew Barney, Maurizio Cattelan, Rudolf Stingel.

Gli artisti italiani, generalizzando, che “problemi” hanno? Provincialismo, passato, sistema…

Inutile dire il sistema, Cattelan è riuscito a diventare un grande artista internazionale proprio grazie alla sua italianità, come i grandi registi è riuscito a parlare a una platea globale. L’artista italiano ha la sindrome del ferramenta, scade nell’artigianato. Il fatto di appassionarsi al processo produttivo e al materiale, al bullone. L’artista americano ha un’idea e pensa al modo migliore di risolverlo. Koons voleva fare un oggetto che meravigliasse e ha trasformato i palloncini gonfiabili in grandi sculture scintillanti, è uno che guardava e studiava i linguaggi degli oggetti popolari e li trasformava in icone, in sculture.

Critica. Come siamo messi in Italia?

In Italia c’è una cosa che danneggia la critica e il mondo dell’arte: la televisione. Il critico di riferimento è uno che riesce ad arrivare alla televisione. Non importa se è bravo o meno. 

2019 Shoog
Shoog McDaniel, Untitled, 2018.

Contano ormai poco o niente il critico, la critica…

Perfino in America contano relativamente. Vent’anni fa una critica negativa a una mostra di Roberta Smith o dello stesso Saltz poteva influire sul mercato di quell’artista. Adesso con tutti i media che ci sono, social in primis, è una battaglia persa, parli a una platea di approvazione vastissima. Guarda i pessimi Banksy, Ai Weiwei… Io posso “criticare” per mio divertimento, ma non cambio nulla. 

Di chi è la colpa?

La colpa è stata di noi curatori e artisti che abbiamo voluto insistere a dimostrare, in termini anche di valore economico, che certe opere importanti da un punto di vista intellettuale, come la Merda di Manzoni o un quadro bianco di Ryman, erano tanto importanti quanto un Monet dal punto di vista del piacere estetico. Non è vero. La pasta al burro non è più buona della pasta al ragù, è una battaglia persa. 

Facciamo i moralisti. Sarà migliore il sistema, mercato, dell’arte dopo la pandemia?

Facendo i moralisti diciamo che il mercato dell’arte aveva raggiunto dei valori estremi, la fiera di Basilea o la Biennale di Venezia erano più dei calderoni di feste che non servivano più a nulla. Forse si resetteranno alcune cose. Tante delle realtà che sono sparite, lo dico cinicamente, avrebbero chiuso comunque negli anni a venire, la pandemia ha solo esasperato tutto questo.