Jacopo Benassi, ritratto intimo di un artista punk

Jacopo Benassi, ritratto intimo di un artista punk

di Carolina Saporiti

Intervista al fotografo (e molto altro) che ha fatto dell’uso del flash la sua firma stilistica e che è in mostra dal 9 aprile al 31 luglio alla Fondazione Carispezia con “Matrice”, a cura di Antonio Grulli

Odia le idee, lavora d’istinto, ma parla di rinuncia come condizione perenne del suo lavoro artistico. Ha scattato immagini di nudi, realizzato performance e video visivamente molto forti, ma usa spesso le parole dolore e sofferenza. La sensazione, parlando con Jacopo Benassi, incontrato telefonicamente alla vigilia dell’inaugurazione della sua mostra Matrice, nella sua città natale alla Fondazione Carispezia, è quella che si prova soltanto di fronte a un artista.

Conosciuto soprattutto per le sue fotografie in bianco e nero, negli anni ha aperto un locale a La Spezia, il Btomic, dove ha suonato e realizzato performance, ma ha anche creato quadri e sculture. Matrice, a cura di Antonio Grulli, ruota attorno al passato dell’artista e al suo rapporto con la città della Spezia, come luogo di formazione e di vita, in grado di influenzare buona parte del suo percorso. Le opere in mostra parlano del suo rapporto con la città, con la sua infanzia, con la famiglia e con se stesso.

Nelle settimane precedenti l’inaugurazione è stata costruita nella sala centrale degli spazi espositivi una struttura in cartongesso dalla forma uterina, nella quale e dalla quale Benassi ha realizzato dipinti e sculture (incarnando davvero la matrice della mostra). 

Matrice è quindi composta di lavori in cui pittura, fotografia e scultura vanno a comporre strani ibridi, che verranno presentati semplicemente appesi ai brani di muro della matrice, installati all’interno della Fondazione, o appoggiati su tavoli precari pensati per l’occasione, quasi si fossero salvati da una demolizione. Inoltre, durante la durata della mostra, verranno organizzati quattro incontri con persone fondamentali nel percorso artistico di Benassi e aperti al pubblico.

Partiamo da Matrice, la mostra che inaugura sabato a La Spezia presso Fondazione Carispezia. Qual è la sua genesi?

Vorrei partire da Vuoto, la mia precedente mostra, ideata durante il primo anno di pandemia, il 2020. Il Centro Pecci di Prato mi aveva chiesto di fare un’esibizione e per me era una grande occasione. Ho proposto allora di portare il mio studio in mostra. Ma non è stata un’idea. Io odio le idee, agisco d’istinto: volevo svuotarmi totalmente del mio lavoro e sono felice di averlo fatto. Mi ha fatto riflettere essermi privato del mio studio. D’altronde la rinuncia è fondamentale per ottenere un buon risultato… 

Alt! È un po’ strano sentire parlare una persona che si definisce punk di rinuncia…

Non è una rinuncia legata alla libertà, di cui io ho tanto abusato, ma un modo di agire nel mondo visivo. Siamo sopraffatti dalle immagini, io cerco di non aggiungere altro. Ho sempre agito in poco tempo, andavo dove dovevo scattare, facevo le foto e andavo via. Bisogna accontentarsi di quello che si ha, mi sono abituato al non perfetto. Rinuncio a tanto con il mio modo di essere, ma la fotografia mi ha donato una consapevolezza molto grande.

C’è una persona che citi sempre come tuo maestro ed è Sergio Fregoso…

Sergio mi ha insegnato a guardare. Mi ha insegnato a guardare le foto degli altri. Le mie non sono foto belle, ma sono il mio lavoro, la mia vita. 

Oltre alla fotografia, però lavori anche con altre forme di arte, pittura, scultura, musica… Ti senti più pittore, scultore, musicista?

Non sono niente di tutto ciò. Faccio musica, quadri e sculture, ma in tutto questo c’è sempre la fotografia. La fotografia è un parametro verso tutto quello che avrei voluto fare e non ho fatto. Soffro, è vero. Ma io amo essere radicale.

Come, per esempio, con l’uso del flash nella fotografia?

La scelta di usare il flash è andata di pari passo con la mia dichiarazione di omosessualità. Il flash è una luce che cancella la luce che c’è. La fotografia mi ha permesso di entrare in questi mondi, di salire su un palco a suonare, cosa che ho sempre voluto fare. 

Se all’inizio è stata uno strumento di liberazione e comunicazione, ora, dopo più di 30 anni cosa rappresenta per te la fotografia?

È la mia ombra, è la chiave per aprire tutte le porte che voglio, è solo lei che mi permette di fare tutto questo. È la mia compagna di viaggio.

Torniamo a Matrice, come è nata?

Matrice è uno sguardo della mia città attraverso i quadri di Agostino Fossati, un pittore del secolo scorso di La Spezia, non molto famoso, ma a cui io mi sono ispirato. Ho fotografato La Spezia come la palude che era. Ho resettato tutto quello che ci stava intorno.

Non ci sono persone o edifici?

No, ho tolto tutto ciò che ha saturato il mondo: persone, edifici… Questa mostra è un po’ un addio. Il mio compagno, Augustin Laforêt, il cui contributo a questa mostra è stato fondamentale per i calchi, è di Bordeaux e io mi sto chiedendo dove andare a vivere prossimamente. Matrice è uno schiaffo e una carezza insieme. La Spezia in questa mostra è rinascita, è guardare il mondo senza niente di tutto ciò che l’ha rovinata.

A proposito di La Spezia, riflettendo sulla provincia italiana, come pensi che sia cambiata negli anni?

La dimensione della provincia mi ha aiutato molto. Molti fotografi si sono inventati idee, viaggi. Io non ho mai pensato a fare cose che nessuno avesse mai fatto prima. Io vivo e faccio, che in provincia è fondamentale. Ho sempre odiato andare in giro, ma il confronto con il fuori è fondamentale e va sempre fatto. E non parlo di Instagram, ma di contatti e visite con le gallerie, alle mostre. Oggi la provincia è meno provinciale, ci puoi stare e non essere fuori dal mondo. 

Il titolo Matrice però fa riferimento non solo alla tua città natale, ma anche all’installazione a forma di utero dove hai lavorato nei mesi precedenti all’inaugurazione della mostra per realizzare le opere ora in esibizione. È un richiamo alla Grande Madre?

Questa sorta di utero è dove ho concepito e visto il mio lavoro. C’è una cosa che vorrei raccontare a proposito del tema madre. Dopo poco che avevo iniziato a lavorare, i primi di febbraio, mia mamma è morta, era molto malata. Il nostro rapporto era distaccato, ma il legame forte. La sera del funerale sono andato a casa sua per svuotarla in fretta e per scattare alcune foto, era un’esigenza forte. Mi è passata davanti tutta la mia vita, ho rivisto i luoghi in cui avevo sofferto. In quell’occasione ho anche preso il mio primo quadro che era appeso sopra al letto di mia madre. L’ho portato in fondazione e sono tornato a casa per scattare le foto della parete con il segno del quadro che era rimasto appeso più di 35 anni. Ho stampato quelle foto e le ho incorniciate e messe davanti al quadro, con dolore e gioia. È la mia opera migliore.

Come è nato il titolo?

Matrice vuol dire tutto, è la partenza di tutto. Vuol dire morire e rinascere. Questa mostra è la mia rinascita, dopo un momento in cui ho fatto tante cose. Forse ci si aspettava foto più punk, dure. In realtà ci sono molte cose dure in questa mostra, ma bisogna trovarle.

In questo senso si può dire che Matrice sia una mostra profondamente intima? 

Molto, è un lavoro molto romantico. Non ci sono nudi, ma lo stesso c’è intimità e c’è sofferenza. Io sfido la morte lavorando, voglio lasciare un segno. Ancora oggi non sono nessuno, ma faccio le cose che mi piacciono.