Jim Herrington, “l’arrampicatore della fotografia”
Courtesy of Jim Herrington

Jim Herrington, “l’arrampicatore della fotografia”

di Andrea Giordano

Intervista in esclusiva a Jim Herrington, uno dei grandi della fotografia mondiale, protagonista al prossimo Trento Film Festival con una mostra unica

Fotografare leggende, in grado di raccontare un certo tipo di epica, storia e cambiamento culturale, sono un’impresa per pochi, grandi, sguardi e obbiettivi. Per farlo serve ingegno e personalità da vendere. Jim Herrington è uno di loro. Un ritrattista-documentarista, come si definisce, di fama internazionale che, a dispetto di oltre 40 anni di carriera vissuti pienamente, da pioniere e nomade della fotografia, oggi è più che mai un personaggio rock, intriso di esperienze e avventure da condividere, che dalla musica (altra passione) riesce a portare in altri mondi. Parlarci è una fortuna. Lo incontriamo poco prima del Trento Film Festival (in programma dal 28 aprile al 7 maggio), una delle manifestazioni di punta in Italia (ma non solo) nell’intrecciare in maniera trasversale i rapporti tra cinema, letteratura, epica e montagna. Qui, oltre a essere nella giuria, presenterà infatti la sua prima mostra italiana, The climbers, ispirata al libro omonimo publicato nel 2017, vincitore del Grand Prize ai Banff Book Awards 2017 e il Mountaineering History Award. Una raccolta unica, composta da 60 fotografie in bianconero, legata a personaggi straordinari dell’alpinismo del primo e secondo Novecento, tra gli anni ‘20 e ‘70. Uomini e donne, come Royal Robbins, Reinhold Messner, Yvon Chouinard, Jim Bridwell, nei quali volti Herrington ha saputo immortalare umanità, fragilità, passato e presente, forza, ambizione. Volti scolpiti nel tempo, come i tanti altri che è riuscito a incastonare attraverso la macchina fotografica, da Morgan Freeman a Cormac McCarthy, da Dolly Parton ai Rolling Stones.

Come mai proprio i climbers?

Faccio queste interviste da alcuni anni, tempo fa ne parlavo con un mio amico, perché non riesco mai a trovare un modo breve per spiegarlo. É complicato. Per prima cosa, se da un lato sono sempre stato interessato alla musica sin da quando ero giovane, lo stesso è successo riguardo all’arrampicata. Avevo 13 anni quando ho ricevuto la mia prima macchina fotografica, e così per la mia prima scalata in montagna.

Si ricorda dove era andato ad arrampicare?

Nella Carolina del Nord, è da lì che provengo. Mettersi in cordata è come far parte di un club, di un’organizzazione, mi sentivo uno scalatore alla vecchia maniera, ma mentre mi appassionavo sempre di più alla fotografia, guardavo a queste persone fantastiche, veri e propri pionieri. Li ho studiati per tutta la vita. Qui volevo un progetto tutto da raccontare, poi ho sempre amato le cose vecchie, i vecchi, le vecchie città, le vecchie storie. Da qui il libro.

Le storie “vecchie” possono essere però in un certo senso contemporanee, non crede?

Assolutamente, è successo con i musicisti. Ho capito che c’era un posto molto speciale in America e che amo, sono le montagne della Sierra Nevada in California, un luogo che parla di grandi impresi, cinema western, film hollywoodiani, di scrittori come Jack Kerouac, di storie. Ed è lì che ho scovato due climber degli anni ‘20, ancora vivi. Il mio era un desiderio molto innocente, poterli scattare, da anziani, prima che morissero. Ne sono arrivati altri, americani, italiani, come Messner. Il progetto cresceva, ma l’aspetto moderno è diventato più evidente proprio man mano che proseguivo.

Cosa ha scoperto ulteriormente?

Che se tieni a qualcosa sei disposto a tutto. Mi sono trovato spesso a non avere soldi, a girare per l’Europa con un biglietto di sola andata, a dormire come un senzatetto in Spagna, a non programmare nulla, a incasinare la mia stessa esistenza, e alla fine sono passati 20 anni. Ma penso che se qualcuno mi avesse dato il denaro per realizzare  tutto in sei mesi, non sarebbe stato così interessante. Sono cresciuto, ho iniziato a pensare, vedevo persone che avevano dedicato la propria esistenza a qualcosa che andava al di là di ogni previsione. All’improvviso, mi sono detto, “ma questa è anche la mia di storia!”.

Quarant’anni di carriera, ci pensa?

È stata una vera avventura, in cui c’è stato il tempo di scegliere e realizzare ciò che stava accadendo. Ho scattato copertine di album, collaborato con riviste importanti, da Rolling Stone a Vanity Fair, eppure ho dato retta alla mia testardaggine e alla mia di visione, rifiutando anche tanti lavori. Era un problema talvolta, ma è stata anche una lotta da portare avanti.

Chi sono stati i suoi punti di riferimento?

Richard Avedon, Irving Penn. Ma io sono stato prima di tutto un studente di fotografia, l’ho analizzata fin dal passato, ne ho assimilato il vocabolario visivo e che tutt’oggi mi porto dentro. Perché se vuoi creare qualcosa di nuovo, devi renderti conto di cosa è successo prima di te. Mi considero un ritrattista documentarista: voglio raccontare storie e persone che ritengo interessanti.

Il cinema fa parte della sua formazione?

Sì, dai vecchi film americani degli anni ’30 e ’40, ai western di John Ford. Poi crescendo ho sviluppato un gusto un po’ più sofisticato, riguardo Alfred Hitchcock, di cui sono fan, Federico Felini, Akira Kurasawa, Godard, Bergman.

Tra gli scatti più importanti c’è quello a Dolly Parton.

La prima volta avevo molta pressione, la seconda eravamo solo io e lei all’interno di una capanna, fu incredibile. Oggi è probabilmente una delle mie fotografie più famosa di sicuro per quanto riguarda le vendite di stampa. Alla casa discografica non piaceva nemmeno. È rimasta sulla mia scrivania per quasi dieci anni o più, ecco devi essere testardo su cosa vuoi fare e cosa vuoi dire, qualunque cosa sia.

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Dolly Parton, fotografata da Jim Herrington

Il ritratto allo scrittore Cormac McCarthy sembra invece rappresentarla molto.

È uno dei miei preferiti. Lui era noto per non fare interviste o farsi fotografare, ma quando la rivista Rolling Stone mi incaricò di andare da lui, dissi immediatamente di sì. Passammo una intera giornata insieme, a camminare. Lo scattai a San José, nel New Mexico, vicino al San José Institute. Ricordo fosse mezzogiorno, era molto soleggiato: ad un tratto ho avuto questa visione oscura di McCarthy e della sua scrittura, volevo qualcosa di molto apocalittico, così, grazie a un po’ di tecnica, sono riuscito a far sparire quella luce dall’esterno. Un piccolo flash, ravvicinato. Non ho avuto bisogno di molto, è stato un attimo. L’attrezzatura talvolta non è così importante, lo è semmai un’idea.

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Lo scrittore americano Cormac McCarthy, autore di romanzi come “The Road” e “Non è un paese per vecchi”, fotografato da Jim Herrington

Oggi vive a Nashville, una delle città più importanti per la musica. È stata importante?

Ad essere onesto no. Io vengo dalla Carolina del Nord, ma da lì avrei sempre voluto scappare, e vivere a New York, o a Hollywood, cosa che poi ho fatto. Conobbi poi una ragazza, lei era di Nashville, mi disse “dovresti venire a trovarmi, trasferirti qui, c’è così tanto lavoro”. Amavo la musica country, il blues, così andai, erano i primi anni ‘90. Lì incontrai Charlie Rich, un grande cantautore e pianista, aveva cominciato nello stesso periodo di Elvis Presley: lo fotografai. Rimasi qui per dieci anni, ora ci sono tornato proprio durante il Covid.

Passiamo in rassegna altre icone che è riuscito a scattare: Mick Jagger e i Rolling Stones

L’unica volta che ho fotografato insieme i Rolling Stones è stato nel 1989, un periodo pazzesco. Stavano girando un video in una parte di Brooklyn, che oggi è molto hipster, allora era un ghetto. C’era un vecchio volo che cadeva a pezzi, faceva molto freddo. Storicamente si assisteva alla Prima Guerra del Golfo, la canzone si schierava contro la guerra, giravano immagini che poi sarebbero finite nel video, io documentavo tutto. Mi è capitato di scattare da soli anche Keith Richards e Ronnie Wood, ma ricordo molto bene Mick Jagger e quel suo tono di voce, “ehi Signor fotografo”!, mi chiamava.

E poi c’è stato Jerry Lee Lewis.

Lui è davvero il top per me, lo amavo e volevo a tutti costi fotografarlo. Ci provai tante volte. Oggi, i ragazzi, non sanno neanche chi sia, cosa abbia rappresentato, non hanno alcun interesse a scoprirlo. In questo caso diventai amico di sua figlia, lei fu molto carina e comprensiva, aveva la mia stessa età, ed aveva studiato fotografia. Sei anni dopo mi chiamò, “vuoi fotografare mio padre?” Andai nella sua casa a Memphis, passammo una splendida giornata. Molti dicono ‘non incontrare mai i tuoi eroi’. Beh io è quello che faccio al contrario, bisogna essere preparati Jerry Lee Lewis, ad esempio, era nato da una famiglia provare, provi a immaginare il sud profondo dell’America, il Mississipi, la Louisana, non aveva quasi niente, né telefono o elettricità. Poi questo ragazzo esplode, riempie i teatri di Londra, fa impazzire le folle, dunque averlo lì, accanto a me, dopo una vita incredibile e folle, a gestire il proprio ego, te lo fa vedere nella sua normalità, come te. Hanno gli stessi demoni che abbiamo noi.

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Keith Richards, fotografato da Jim Herrington

Che ne pensa del passaggio al digitale: la spaventa?

Molti dei cambiamenti sono stati buoni, ovviamente, molti cattivi. La fotografia si è sempre evoluta dall’Ottocento all’inizio del secolo, dalle lastre bagnate alla pellicola, ma in questo scenario moderno in cui ci troviamo, con Instagram e tutto il resto, stiamo diventando troppo saturi di immagini e macchine fotografiche. L’atteggiamento del pubblico è cambiato. Quando però guardo le mie foto, penso che il digitale non avrebbe avuto un giusto impatto su di loro, seppur oggi sia incredibilmente facile usare la tecnologia. Io usavo una Rolleiflex, c’erano sensazioni e personalità diverse nella macchina, la combinazione degli obiettivi, le piccole Leica. Il fatto è che ci saranno sempre storie da raccontare, grandi narratori, non cambierà mai questo, non importa cosa usiamo per poterlo fare.

È mai riuscito a dare una vera definizione di fotografia.

È una via per me di interagire con la vita. Ho così tanti interessi, passioni e curiosità, lo considero un filo che mi permette di connettermi, sia che siano alpinisti, musicisti, belle donne, storie interessanti, a volte tristi, a volte divertenti. È la vita. È solo un modo meraviglioso per me di impegnarmi artisticamente attraverso la mia di esistenza.