L’arte di Cecilia Jansson a Venezia indaga il corpo umano in un momento di distanziamento sociale
Matteo De Fina

L’arte di Cecilia Jansson a Venezia indaga il corpo umano in un momento di distanziamento sociale

di Carolina Saporiti

La Collezione Peggy Guggenheim insieme a Swatch Art Peace Hotel ha aperto il 2021 con il workshop di Cecilia Jansson “Exploring the Distance” con un’installazione presso GAD – Giudecca Art Distric a Venezia. Un lavoro collettivo sulla nostra presenza corporea nel mondo e di riflessione interiore.

Non si può nascondere l’emozione di partecipare a un’installazione artistica dal vivo in questi tempi, dopo tante videoconferenze, tour online e inaugurazioni su Zoom. Incontriamo Cecilia Jansson, artista svedese che nelle sue opere e attraverso di esse osserva i fenomeni scientificamente con un risultato poetico a Venezia, in una giornata tipicamente invernale con il cielo bianco e l’acqua della laguna calma. La stessa calma che si prova entrando nella sala dove è allestita Exploring the Distance, l’installazione collettiva realizzata sotto la guida di Cecilia. Grandi silhouette umane di carta e disegnate o riempite di scritte sono appese ai muri o sembrano riposare a terra. Alcune stanno danzando, altre sembrano dormire, altre ancora si proteggono, la maggior parte sono ferme immobili, con le gambe e le braccia tese. Sono tutte diverse, pur rappresentando ognuno il corpo umano. Ma in ognuna di esse c’è una persona e un carattere che parla. E si sente.

Exploring the Distance è il terzo di quattro appuntamenti che compongono il progetto SuperaMenti. Pratiche artistiche per un nuovo presente, organizzato dalla Collezione Peggy Guggenheim di Venezia con la partecipazione di Swatch Art Peace Hotel. Il progetto consiste in un ciclo di quattro laboratori, rivolti agli young adults, condotti da artisti immaginati come attivatori virtuosi di meccanismi di ricaduta sulla comunità e come catalizzatori di azioni volte alla riappropriazione degli spazi pubblici e alla ridefinizione dei paradigmi sociali.

Cecilia ha chiesto ai partecipanti del suo workshop, tutti di età compresa tra i 16 e i 25 anni, di lavorare sul tema del corpo umano, disegnando la propria silhouette su carta marrone o grigia e successivamente riempiendola secondo il proprio sentimento con i colori bianco e nero. Per tre giorni poi le silhouette sono state esposte nello spazio espositivo GAD – Giudecca Art District alla Giudecca, Venezia

Partiamo da questa installazione. Come nasce l’idea di questo lavoro collettivo? E perché così tanto peso è dato al corpo? Che importanza ha la nostra presenza corporea nel mondo e nelle nostre relazioni?
In questo momento storico tutto è focalizzato sul nostro corpo. Stiamo vivendo la distanza gli uni dagli altri e abbiamo scoperto che possiamo essere pericolosi con la nostra vicinanza, quindi per questo workshop ho chiesto di lavorare sul corpo umano inteso come strumento di misura e di limite. La distanza sociale messa in atto in questi mesi ha concentrato l’attenzione sui confini del proprio corpo. Si sapeva già che la presenza di un corpo o di una persona può rappresentare un pericolo, ma per molti lo scoprire che un corpo, anche il proprio, può essere una vera minaccia è un’esperienza nuova. Cosa accade quando dobbiamo venire a patti con il fatto che abitiamo corpi mortali e potenzialmente minacciosi? Cosa possiamo trarre da queste esperienze? I partecipanti al laboratorio hanno lavorato su queste tematiche, offrendo le proprie interpretazioni.

Credi che l’arte possa essere uno strumento d’indagine e di scoperta di sé? E se sì, come si concilia questo con il fatto che l’arte, si dice, sia universale?
Assolutamente e questo lavoro lo rivela. Queste silhouette sono le storie delle persone. Ogni disegno è personale e l’allestimento, il fatto di farle interagire tra di loro, è un po’ come avere qui questi ragazzi. Ogni lavoro è la loro espressione. È interessante che non ci siano facce disegnate, è stato rappresentato molto di più l’interiorità rispetto all’esteriorità, è stato istintivo fare così per tutti quanti. Mi ha stupito molto, mi aspettavo nudi, invece sono tutti autoritratti che manifestano emozioni o condizioni.

In questo momento storico in cui i musei sono chiusi, in cui siamo stati in casa per giorni e giorni… tanti artisti e istituzioni culturali si sono attivati per offrire la propria arte al pubblico. L’arte è anche terapia?
Sì, tutta l’arte può esserlo. Il processo creativo può essere sempre terapeutico. Anche se non si lavora su tematiche personali c’è sempre qualcosa di interessante che innesca qualcosa dentro di noi.

Carlo Giordanetti, direttore creativo di Swatch, ha detto che il corpo nelle tue opere è sia un oggetto rappresentato sia un soggetto attivo. Che significato ha questa ambivalenza?
Lavorare sul nostro corpo ci costringe a porre l’attenzione sui confini fisici e relazionali di ciascun individuo rendendo tutti maggiormente consapevoli sia della propria presenza corporea che dell’impatto psicologico ed emotivo che vicinanza e distanza fisica portano con sé.

Come artista sei preoccupata o ti chiedi come esporrai in futuro le tue opere e soprattutto come verranno usufruite dalle persone in futuro? E parlando in generale vedi che l’arte e gli operatori si stanno muovendo in qualche direzione? 
È un pensiero costante anche perché insegno in una scuola d’arte in Svezia e dobbiamo trovare il modo di continuare a farlo a distanza. È un pensiero che mi preoccupa molto. Nei giorni scorsi stavo parlando con due colleghe che avevo invitato alla Zoom call di questa installazione e stavano dicendo che le scuole d’arte dove insegnano a New York stanno chiudendo, non riescono a sopravvivere in questa situazione ed è una cosa spaventosa perché diventerebbe difficile ricominciare a fare arte.

Bisogna trovare nuovi modi per fare arte?
Credo che noi persone creative stiamo già trovando il modo per falo. Per esempio usando Instagram…

Credi nel potere del social media?
Sì, ma ancora di più credo nel potere delle persone. Non sono solo i social media, già questo workshop è un esempio e una soluzione possibile per fare arte.

Siamo a Venezia, una città dove si respira arte. Quanto pensi possa influire l’ambiente in cui si vive sulle nostre vite e sulla nostra percezione delle cose? Per esempio nell’installazione due studenti cinesi hanno dato molta importanza alle mani nei loro lavori…
Penso che l’ambiente dove cresciamo sia fondamentale per la nostra impronta. Quando cresci e hai accesso a tutte le culture attraverso i media e gli amici diventa più una scelta personale cosa ti piace. Per questo è importante che ci sia arte ovunque, perché le prime influenze sulla nostra persona avvengono quando siamo piccoli. Molti bambini ancora crescono senza riferimenti artistici perché crescono senza arte intorno, invece bisogna sforzarsi per far avere stimoli artistici a tutti i bambini.