Luca Lo Pinto: “questo museo non è una festa in smoking ma un club dove andare a ballare”
Foto: Delfino Sisto Legnani

Luca Lo Pinto: “questo museo non è una festa in smoking ma un club dove andare a ballare”

di Marta Galli

Riapre a Roma il Macro dopo sei mesi di fermo, con una direzione nuova, leggera e internazionale. Una conversazione con il direttore Luca Lo Pinto.

Senza la firma di un’archistar non hai un museo di arte contemporanea. Così va il mondo. E Roma non fa eccezione con i suoi due spazi museali, il Maxxi e il Macro, planati come ufo nella città barocca. Luca Lo Pinto, che da gennaio dirige il Museo d’Arte Contemporanea Roma, non sembra essere un fan dell’intervento di Odile Decq sull’ex birrificio di via Nizza, eppure, è stata proprio la spinosa architettura della progettista francese a suggerire la partitura del suo museo.

Inaugurato lo scorso 17 luglio dopo sei mesi di chiusura, il nuovo Macro è concepito come un magazine “con griglie editoriali rigide che consentono di liberare i contenuti all’interno” e si dipana come una lunga mostra che abbraccerà i prossimi tre anni, cambiando nel tempo. Museo per l’Immaginazione Preventiva – Editoriale (fino al 27 settembre) primo capitolo della nuova avventura, è appunto un prologo intessuto di suggestioni, in una polifonia che non diventa mai tema, ma dove l’arte si propaga rizomatica allagando tutta la superficie dell’edificio, compresi gli antri meno ortodossi. Diverse discipline – arti visive, musica, poesia e cinema – sono esposte senza distinzione, perché il museo fa dell’interdisciplinarietà un aspetto identitario, come a dire che ciò che conta è l’originalità del punto di vista. 

È una rivoluzione? Qual è la cifra di questa nuova direzione?
Non ho un’idea a prescindere su quel che debba essere un museo. Mi sono semplicemente detto: rivoltiamolo e vediamo che succede. E questo l’ho visto fare dagli artisti che per me sono l’unica scuola. Occorre uno sforzo d’immaginazione, come suggerisce già il titolo. Il mandato può anche essere breve (3 anni n.d.r.) ma se ribaltiamo la prospettiva, se trasformiamo il museo in una mostra, be’, allora è una mostra piuttosto lunga. A volte basta solo cambiare il punto di vista. 

A proposito del titolo: ha voluto omaggiare un’opera degli anni Settanta, l’Ufficio per l’Immaginazione Preventiva istituito a Roma nel 1973 da Carlo Maurizio Benveduti, Tullio Catalano e Franco Falasca, opera militante; l’arte può avere ancora un ruolo sociale?
Assolutamente sì. Per quel che mi riguarda anche questo progetto è militante. Militante, per me, non è la documentazione del momento politico, ma è mettersi in discussione. Ne faccio una questione di linguaggi. Più militante sarebbe stato se Tarkovskij avesse fatto i poster di Solaris come fosse Star Wars, piuttosto che farlo con una grafica che piaceva a lui e a una piccola cerchia di persone soltanto. Oggi i musei preferiscono edulcorare i contenuti, per me militante è ragionare sulla comunicazione: puoi metterci anche la Gioconda nel museo, ma a che pro se non porti le persone?

Come si portano i giovanissimi, ad esempio? Gli Uffizi si sono buttati su TikTok…
Mi sembra evidente che la nostra grafica, la comunicazione integrata ideata da Marco Campardo e l’avatar a forma di polpo invece che un logo, ammicchi più in una direzione che in un’altra. Questo museo non è una festa in smoking ma un club dove andare a ballare. Penso al club come luogo di produzione di cultura altra, e se qualcuno si sente tradito da una comunicazione facile e immediata rispondo che qui opere più concettuali e cupe come la stanza vuota di Emilio Prini e i gonfiabili pop di Mazzucchelli convivono.

Da dove viene il polpo?
Cercavo una figura che potesse interpretare il museo e volevo che fosse un animale: è stato un poster del collettivo di artisti Gelitin a suggerirmi il polpo – perché ha una testa ma è tentacolare, come questo progetto. Così ho chiesto a Nicola Pecoraro di disegnarlo. L’avatar ha il potenziale di divenire virale, e infatti compare anche sulle divise dello staff, disegnate dallo stilista Fabio Quaranta. Credo che tutto questo contribuisca a creare un senso di comunità.

Spazi espositivi dalla forte connotazione architettonica come questo, similmente a quello di Zaha Hadid in città, notoriamente sono spazi difficili per gli allestimenti espositivi.
Mi sono detto: invece di farlo diventare dritto, perché è tutto storto, diamogli ancor più carattere. Invece di coprirlo di maquillage, esaltiamone i difetti. E così ad esempio l’opera di Trisha Donnelly l’ho infilata nel cunicolo dove passano gli addetti alle pulizie, e lei è felicissima, non sopporta quando i musei americani la mettono davanti a una bella parete bianca. Ancora una volta: si tratta di mettersi dalla parte degli artisti. Da curatore, per quanto questo sia un progetto ovviamente autoriale, ho cercato il più possibile di sparire. E spero abbia una sua leggerezza, nonostante sino 10 mila metri quadri di museo.

Lei ha partecipato a un bando pubblico per questa direzione, perché concorrere per un posto dove l’architettura è “antipatica”?
Erano due gli elementi che m’interessavano: il fatto che il museo è gratuito per il pubblico e la libertà di azione che avrei avuto, di cui devo ringraziare l’Azienda Speciale Palaexpo e il suo Presidente Cesare Pietroiusti.
La gratuità del museo mi permette di pensare a una programmazione che possa saltare “da una pagina all’altra”, cioè che si possa fruire a spot, proprio come una rivista, così che ognuna si prenda ciò che vuole. Sono convinto che la mostra sia accessibile a tutti, con diversi livelli di lettura.

Molte delle opere in mostra sono state prodotte appositamente mentre le preoccupazioni di chi vi chiedeva notizie della collezione permanente sono state sedate.
L’aspetto kafkiano della collezione permanente è che sta nei depositi del museo ma non è accessibile. Appartiene alla sovrintendenza. Attraverso le immagini realizzate da Giovanna Silva, che non è una semplice documentazione fotografica ma un progetto autoriale, l’abbiamo fatta riaffiorare. Nel frattempo stiamo digitalizzando le opere perché possano essere messe online e accessibili.

Una curiosità, qual è il suo “contenitore” ideale, come museo?
Amo le case museo come quella di John Soane a Londra e quella di Mario Praz qui a Roma. Mi piace l’idea di portare le esposizioni del Macro anche fuori di qui, magari con mostre che qui iniziano per poi proseguire da un’altra parte.

C’è in effetti un progetto “esterno” già in cantiere…
Era un’idea su cui rimuginavo da una decina d’anni. Perché sin da piccolo ero molto impressionato dal passaggio degli aerei pubblicitari sopra la spiaggia, ho pensato sarebbe stato fantastico se questi banner potessero diventare opere d’arte. Lawrence Weiner era perfetto, la sua materia è il linguaggio. Il progetto è fiorito durante il lockdown, e dal 15 Agosto per dieci giorni, sorvolerà il litorale romano.